Francesco Guccini

Riflettendo di musica leggera

pensieri frammentari

cantautori italiani

Ciò che trovo interessante di molti cantautori è che le loro sono canzoni (minimamente) pensate. Cioè non si limitano a creare un momento di svago più o meno ebete, ma possono aiutare, sia pure gradevolmente e in modo non pesante (dove appunto “pensante” non vuol dire “pesante“), ad andare al fondo della realtà che viviamo.

I cantautori su cui dirò qualcosa sono quelli che conosco meglio, per cui se qualcuno troverà che ho saltato dei cantautori per lui essenziali non me ne voglia: il mio è un “olimpo” che non ha alcuna pretesa di esclusività oggettiva.

Un primo sommario confronto

Francesco Guccini ha il grande pregio di prendere sul serio, come pochi altri suoi colleghi, il dramma umano, il dramma dell'io.

Anche altri autori, come Antonello Venditti, prendono in considerazione il dramma della condizione umana (pensiamo a Lilli, o a E li ponti so soli). Ma è il dramma degli altri. Non dell'io. Cioè non si tratta di drammi in cui chiunque possa riconoscersi.

Altri cantautori, come Fabrizio De André prendono in considerazione il dramma in quanto legato a particolari situazioni, in genere di discriminazione o di emarginazione. De André è vicino agli ultimi, ai diseredati, ai disprezzati: pensiamo a Bocca di Rosa, o a Un giudice o all'assassino de Il Pescatore. Ma quanto è vicino a sé stesso? Ci sarebbe dramma se Bocca di Rosa non avesse dovuto prostituirsi? Se quel giudice non fosse stato nano? Se l'assassino de Il Pescatore non avesse ucciso?

Mi pare che i drammi di cui de André canta, con ammirevole empatia e rara sensibilità sociale, siano drammi, come dire, settoriali, tipici di alcuni esseri umani in alcune situazioni. Non è a tema il dramma umano in quanto tale: cercare una felicità infinita trovando come ostacolo apparentemente insormontabile la morte.

Guccini invece, pur avendo anche lui una simpatia per gli ultimi, anzi guardando con simpatia la ribellione all'ingiustizia sociale (si pensi a La locomotiva), mette per lo più a tema proprio la condizione umana in quanto tale. Per questo è potuto sembrare, nell'ottica marxista, diffusa negli anni '60/'70, come un artista reazionario, o almeno non abbastanza rivoluzionario: perché ripiegato sull'io, invece che impegnato con la la lotta di classe, con la liberazione della collettività. È una delle critiche di cui si lamenta ne L'avvelenata.

La sua musicalità non sarà il massimo della godibilità, ma i suoi testi fanno pensare, in modo non pedante o pesante.

Di Francesco De Gregori non posso dire molto bene: quello che lo salva è una musicalità per lo più gradevole, più gradevole e immediata di quella di Guccini, Venditti e De André.

Ma egli paga questa sua (prevalente) superiorità sul piano musicale con una maggior superficialità sul piano dei contenuti.

Per carità anche lui ha fatto canzoni socialmente impegnate, ad esempio in senso anti-militarista. Ma ancor più che in Venditti e in De André la sua prospettiva elude il dramma dell'io, e si ferma a un livello politico-collettivo.

Un breve cenno a Lucio Battisti e a Lucio Dalla. Cantautori che hanno fatto della musica assolutamente godibile. Ma, all'opposto dei cantautori più “impegnati”, si tratta di canzoni tutte imperniate su un io, del cui dramma non si va a fondo.

Battisti è un autore che io ho amato molto nella mia adolescenza, ma ripensandoci il tema ricorrente delle sue canzoni è la lacrimevole mancata corrispondenza amorosa della donna di volta in volta “concupita”, come “colei che sola” a lui “par donna” (per parafrasare «Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;» (canzone 126 del Canzoniere di Petrarca)
Petrarca
). Come se, in presenza di una corrispondenza, tutto si sarebbe risolto ed egli non avrebbe avuto più niente da desiderare.

Qualcosa del genere mi pare si possa dire anche di Dalla. Un po' meno narcisista e piagnucoloso di Battisti, ma tutto sommato pago di un orizzonte limitato, in cui si fatica a trovare del dramma, umano o anche solo sociale.

E infine Adriano Celentano: il trionfo di un sano, per quanto poco profondo, solido buon senso comune, a tutto tondo. Non si cerchi in Celentano profondità di analisi, non si cerchi il dramma umano, la sua stessa musicalità è elementare, per non dire nazional-popolare: in lui però c'è la semplicità di un bambino che trova tutto ovvio e semplice. E anche questo, nella grande sinfonia del Creatore, ha un suo posto.

omissioni

So bene che esistono diversi altri cantautori italiani, come, tra gli altri, Giorgio Gaber, Bruno Lauzi, Enzo Jannacci, Gino Paoli, Angelo Branduardi.

Se non ne parlo non è perché non ne riconosca un possibile valore, ma perché li conosco meno. Qualcosa comunque dirò anche di loro.

Gaber ha scritto anche delle canzoni di contenuto decisamente interessante, come L'illogica allegria. Ma devo confessare che lo stile complessivo di Gaber non mi ha mai particolarmente preso: sarà un mio limite, ma trovo in lui un'ironicità cabarettistica, al limite dell'istrionico, che me lo fa percepire più come un attore che come un vero e proprio cantautore.

Anche Branduardi ha fatto delle canzoni il cui contenuto farebbe pensare, come sul tema della morte (come Ballo in fa diesis) o della vanità delle cose (come Alla fiera dell'Est o Vanità di vanità). Ma anche nel suo caso mi disturba un ché di fatuo, un tono non fino in fondo serio. Qualcosa che mi ricorda un po' la disimpegnata “ironia romantica”, come nella quinta sinfonia di Berlioz o nella Danza macabra di Sans Saens.

Di Jannacci non conosco molto: salverei comunque la sua interpretazione di Pedro Pedreiro.

Gino Paoli e Bruno Lauzi a loro volta rientrano invece in pieno in quella proporzionalità inversa tra gradevolezza e profondità, che è una sorta di regola costante nei cantautori visti: le loro canzoni sono musicalmente belle, non per nulla alcune (come Sapore di sale o La gatta) sono diventate dei “tormentoni”. Però si cercherebbe invano in loro dei contenuti particolarmente profondi. C'è al massimo, qua e là, un po' di impegno sociale (Quattro amici di Paoli o Vedrai com'è bello di Lauzi). Ma nulla che riguardi il dramma umano dell'io.