ritratto di Mann

Thomas Mann

Lucido cronista

L'attenzione ai dettagli, il conflitto tra arte e vita, il determinismo psicologico dei personaggi, la forza dell'ironia. Sono alcuni tratti del grande scrittore tedesco. Che profeticamente avvertì la dissoluzione di un mondo

Nell'inverno del 1898, un giovanissimo scrittore tedesco, Thomas Mann, pubblica una raccolta di racconti. La novella che dà il titolo al libro, Il piccolo signor Friedemann, contiene già molti dei temi dell'opera di quello che diventerà uno dei massimi scrittori del Novecento: l'apparente, fredda riservatezza del narratore, l'attenzione ai dettagli, il determinismo psicologico nel ritrarre i personaggi, il conflitto tra arte e vita, l'antitesi tra cittadino medio e adattato e individuo lacerato da un dissidio interiore che gli fa sentire la vita estranea e gelida, pur continuando a desiderarla strenuamente. Il gobbo Friedemann, figlio di una rispettata famiglia patrizia, è un esempio perfetto di questo individuo manniano: respinto dalla donna amata, subisce un crollo psicologico e soccombe. Stesso destino, quello del protagonista del Pagliaccio, un giovane artista di talento schiacciato dall'impossibilità di sottrarsi alle convenzioni sociali e dalla consapevolezza che queste ultime non offrono nessun nutrimento alla vita.

Il dissidio tra arte e vita, così come viene narrato in questo racconto e con ancor più forza espressiva nel romanzo breve Tonio Kröger, pubblicato cinque anni più tardi, è frutto di cause sociali e culturali ben definite, che il giovane Mann ha saputo cogliere con acutezza: in una fase storica in cui l'arte rischiava di ridursi a ornamento di lusso o ad appendice decorativa di alcune ideologie, gli artisti non possono far altro che rifugiarsi nell'esclusività, convinti di manifestare così la loro protesta contro una società che pretende di ridurre la verità dell'arte a tappezzeria per salotti bene.

Ma, al contrario di altri artisti, come i simbolisti francesi per esempio, che optarono per un fanatismo artistico che vedeva nella creazione un dogma e un atto sacrificale, una sorta di rito a cui dedicarsi con ascetica abnegazione, Mann preferì altre armi: l'ironia, intesa alla maniera di Kierkegaard come zona di confine tra il settore etico e quello estetico della vita; la dialettica della conciliazione degli opposti; e la nietzschiana “ottica doppia”, per la quale ogni manifestazione della vita non va mai letta in modo univoco, pena la caduta nell'ideologia e nell'estremismo.

Libertà interiore

Nelle Considerazioni di un impolitico, saggio del 1918, scritto perciò in uno dei periodi di crisi più acuta del Novecento, lo scrittore tedesco rivendica la libertà interiore da ogni faticoso impegno ideologico, difende la fantasia da ogni mortificante imposizione morale, l'indipendenza dell'intimità da ogni intrusione delle parole d'ordine e delle opinioni manipolate. Come ha scritto Claudio Magris: «Nella retorica dell'impegno Mann scorgeva acutamente una delle manifestazioni più totalitarie della macchina del potere ossia la sua capacità di penetrare nell'interno delle coscienze, violando la sfera privata e integrando, perfino interiormente, l'individuo nel sistema dominante».

La disillusione del dopoguerra, il crollo di tutte le speranze, lo choc dell'inflazione, il timore della rivoluzione, la diffidenza e il disprezzo nei confronti delle masse, il senso d'isolamento e d'insicurezza permanente dell'intellettuale, nel quale si sono andati progressivamente decomponendo i tratti costruttivi e fondamentalmente ottimistici dell'immagine del mondo borghese: tutto questo era già stato avvertito con forza profetica molti anni prima da Thomas Mann. Un'opera come I Buddenbrook, pubblicata nel 1901, è in questo senso emblematica. Nella decadenza qui descritta di una famiglia patrizia di Lubecca si rispecchia lo sgretolamento della vecchia famiglia borghese patriarcale e gerarchica: i valori, le norme e le concezioni del passato perdono consistenza e si riducono a vuote e ipocrite maschere convenzionali. Come quella che imprigiona e sfigura il volto autentico di Aschenbach, il protagonista di La morte a Venezia (1913). Stregato dalla bellezza di un ragazzo, vive inerme, fino alla morte, la dissoluzione della propria personalità, conformatasi fino a quel momento a un'etica convenzionale, di cui si critica la falsità e il crudele moralismo, ma che nonostante questo, non si riesce a superare.

Tempi malati

Ma è probabilmente con La montagna incantata (1924) che Thomas Mann raggiunge l'apice della sua arte, lo zenit della sua capacità di farsi lucido cronista della malattia del moderno. Il romanzo è ambientato in un sanatorio svizzero, in cui i malati di tubercolosi conducono un'esistenza che li estranea dalle norme e dalle abitudini della vita attiva. A poco a poco perdono il senso del tempo, cadono in uno stato di indifferenza, incapaci di sottrarsi al cerchio magico della monotonia e dell'oblio. Il protagonista, Hans Castorp, nei sette anni di permanenza in questo luogo lontano dal mondo, sperimenta la realtà e l'irrealtà del tempo, la trasformazione delle categorie fisiche in categorie psichiche. Il mondo de La montagna incantata è un sanatorio in cui si riflette la patologia della società: quando Castorp lascerà la montagna, anche giù in pianura, nel mondo, non troverà altro che morte, orrore: «Dove siamo? Che cos'è questo? Dove ci ha gettati il sogno? Luce crepuscolare, morte, immondizie, bagliori d'incendio nel cielo grigio, continui rimbombi nell'aria umida, rotta da canti aspri, da ululati furibondi e infernali che terminano la loro traiettoria con scoppi, spruzzi, fragori e schianti (...). Ci troviamo in pianura e c'è la guerra». Questa “malattia” dei tempi, questo orrore, viene ripreso ventitré anni dopo nel Doktor Faustus, biografia inventata del compositore Adrian Leverkhun, che, come il protagonista della tragedia di Goethe, stringe un patto con il diavolo, rinunciando alla salvezza in cambio di ventiquattro anni di genialità artistica. Così Leverkhun impazzisce dopo aver portato a termine il suo capolavoro: la cantata Lamentatio doctoris Fausti. Mann integra l'allusione al passato e alla tradizione del Faust nella visione epica del romanzo, conferendogli il valore di compendio storico della cultura tedesca dal medioevo alla barbarie nazista. La vita nell'epoca del nichilismo è malata, continua a dirci lo scrittore, e malata è anche l'arte. Ciò che ha avuto inizio come antinomia tra trascendenza estetica e grossolano empirismo, tra lo stato valetudinario dello spirito e la prorompente buona salute della vita, si ritrova e si unisce nell'armonia infernale. La realtà ha respinto l'oltraggio che lo spirito nella sua forza creatrice potesse sentirsi come sciolto da lei, e la vita si è opposta sdegnata all'umiliazione di un amore, che la corteggiava soltanto perché era così stupida, così priva di spirito e banale. Proprio così si è spiritualizzata e nel suo abbandono di Dio non le è rimasta altra scelta che quella di vendersi allo spirito del male. Eppure anche in un romanzo così drammatico e inquietante come Doktor Faustus, Thomas Mann non cade nella tetraggine assoluta, non si consegna, vinto e rassegnato, al Nulla. Ecco cosa fa dire a Serenus Zeitblom, il narratore del romanzo, alla fine della sua descrizione della Lamentatio di Faustus: «Dall'iniquità più dannata, sia pure come il più sommesso degli interrogativi, spunta la speranza».

Evoluzione storica

Nella maggior parte delle opere scritte dopo il 1930, appare evidente in Mann la tendenza a dedicarsi ai temi tratti dalla tradizione letteraria universale: dalla Bibbia (nell'estesa tetralogia, Giuseppe e i suoi fratelli), dalle leggende medioevali (L'eletto) e orientali (Le teste scambiate) e da altre fonti. Ma lo scrittore non si volse indietro per rintracciare archetipi o situazioni umane che tornassero sempre uguali. Intendeva, piuttosto, mostrare la dialettica dell'evoluzione storica, senza dissimulare che la sua interpretazione della storia era soprattutto un'interpretazione del presente. Così stabiliva un rapporto di confronto, anche ironico, col passato liberandolo dalla patina arcaica e dallo strato di muffa ideologica, tanto caro invece ai moderni maniaci del mito.

Tratto da Tracce