una immagine di Georges Bernanos

Georges Bernanos

Bernanos e il male

Bernanos (1888-1948) è scrittore cattolico, come Chesterton, e come l'inglese egli vive la scrittura in stretta simbiosi con la fede. Ma rispetto a Chesterton manca del tutto in lui la dimensione dell'ironia, il gusto divertito di prendere in giro chi fa il male: per Bernanos il male, che insidia l'esistenza umana, è una cosa terribilmente seria. Con cui non ci si può permettere il lusso di scherzare.

Nel Diario di un curato di campagna

Se prendiamo quello che mi pare sia il suo capolavoro, il Diario di un curato di campagna vediamo che il protagonista è alle prese con il male, con un male che sembra schiacciarlo. Non tanto perché sia, come il protagonista de Il potere e la gloria, personalmente tentato sul piano di qualche debolezza della volontà: la sua integrità è assoluta, anzi è proprio la virtù di una disarmata sincerità che gli procura guai nei rapporti con chi pretenderebbe da lui il rispetto esteriore di formalità dissimulatrici. Di cui egli non è proprio capace.

È il male indipendente dalla sua virtuosità che sembra schiacciarlo. Il male che affiora prepotentemente persino nei piccoli della parrocchia: si pensi alla malizia della piccola Serafita Dumouchel, che finge di essere oggetto di attenzioni particolari da parte del giovane curato. Il male testardo, tetragono a ogni possibile richiamo: l'infedeltà coniugale del signor conte, l'inconsolabilità della contessa per la precoce morte dell'unico figlio maschio, che la rende chiusa e indifferente, e il sospetto con cui viene guardato dai suoi parrocchiani e la loro diffusa incredulità.

Qualche aiuto il giovane curato lo ha: il rapporto col più maturo curato di Torcy, che è in qualche modo la sua figura autorevole, con cui egli può confrontarsi. O meglio potrebbe. Perché la sua timidezza fa sì che sia il prete più anziano per lo più a parlare. Dicendo cose peraltro ottime: si pensi alle sue celebri espressioni sulla gioia. Ma si ha l'impressione che il giovane curato non sia granché mosso da tale confronto, che pure egli apprezza. Ma che forse guarda con una soggezione tale da trattenerlo da una totale apertura.

Qualche vittoria, anche, egli la ottiene: un rapporto autentico col dottor Delbende, che lo stima. Ma che poi muore in un modo che lascia sospettare il suicidio. Un rapporto autentico lo ha anche con la contessa, che finalmente si libera, parlando con lui, del grave peso che la opprimeva. Ma anche lei, poco dopo il colloquio col curato, muore. Questa morte in realtà non è necessariamente una sconfitta per il curato: probabilmente la contessa, dopo lunghi anni in cui aveva lottato con Dio, si era lasciata andare, riconciliatasi con Lui, a un desiderio, esaudito, di pace. Che solo nella morte poteva trovare. Ma il ”signor conte” non interpreta così la morte della moglie, che pure lui tradiva, e ne rinfaccia la responsabilità al curato. Come se la sua morte non fosse dovuta alla pace finalmente ritrovata, ma all'inquietudine, a una inquietudine provocata dalla eccessiva, ruvida, sincerità del curato.

Il potere del male è tale che rovina anche la salute fisica del protagonista. Che muore, in giovane età, sì, anche per delle tare ereditarie, ma anche per la sua dieta assolutamente improbabile.

Sembrerebbe dunque che il male domini. Eppure la sua fine non è disperata. Il romanzo si conclude con racconto dei suoi ultimi istanti, assistito da un suo compagno di seminario che aveva lasciato l'abito talare per sposarsi (altro fatto in cui il male era riuscito a spuntarla sul bene, perché abbandonare la vocazione non è mai un bene). Il giovane curato aveva scritto sul suo diario, tra le ultime cose, «di fronte alla morte non farò l'eroe né lo stoico (...) se avrò paura, lo dirò “ho paura”», e venuto il momento, risultando impossibile chiamare un prete per amministrargli i sacramenti, dice, come ultima cosa: «che cosa importa. Tutto è grazia!»

Ma non è solo la fine a non essere disperata: pur sentendo gravare su di sé il peso di una lotta senza quartiere, il protagonista persevera lungo tutto il percorso del romanzo, a dare giudizi di fede, con certezza non vacillante. Sbalordito dal potere del male, ma non sopraffatto da esso.

Certamente, comunque, il potere del male nel Diario è meno forte che nel precedente romanzo Sotto il sole di Satana, in cui già dal titolo si annuncia il grande spazio che il male ha nelle nostre vite.

Si potrebbe paragonare il protagonista del Diario al principe Miskin, protagonista dell'Idiota di Dostoevskij: entrambi vivono una sorta di candida e infantile ingenuità. Ma l'ingenuità del principe Miskin è più - come dire - sprovveduta e “inoffensiva”, mentre quella del “curato di campagna” non va disgiunta, come dicevo, da una ottima capacità di giudizio, anche tagliente.

Ne I dialoghi delle carmelitane

Si tratta di un'opera teatrale. E qui la prospettiva, pur rimanendo incentrata sulla persona e sul dramma della scelta, ha una forte caratterizzazione storica: la persecuzione anticristiana nella Rivoluzione francese.

Qui il male è anche qualcosa di collettivamente organizzato e fa paura, alle suore carmelitane che sono come assediate da un fenomeno rivoluzionario che le guarda con accanito livore, fino ad arrivare a chiedere loro l'abiura della fede.

La protagonista dell'opera, Bianca, pur avendo avuto a lungo una angosciosa paura della morte, che l'aspetta se non rinnegherà la fede, trova alla fine, per grazia, il coraggio di non tradire Colui a cui ha dato la vita.

altri punti di vista su Bernanos

Una valutazione decisamente positiva del capolavoro di Bernanos è stata scritta da Vittadini, su Tracce. La riporto per intero:

Il segreto

Giorgio Vittadini

«Un giovane prete viene inviato a fare il parroco nel piccolo paesino francese di Ambricourt. La sua azione piena di umanità e di fede, fortemente contrastata dalla meschinità di molti suoi parrocchiani, viene narrata in un suo diario fino alla morte prematura. La trama del romanzo è quindi semplice, quasi elementare, ma solo in apparenza.

Infatti chi si accosti oggi al libro di Georges Bernanos deve liberarsi di almeno due pregiudizi. Il primo è che sia un libro ambientato in una campagna ormai scomparsa e di scarso interesse. Inoltrandosi nella lettura ci si accorge invece che il contesto, mutatis mutandis, è del tutto simile a quello di oggi. Nei concittadini del curato prevalgono cattiveria, noia e soprattutto un’immensa e mascherata solitudine, non solo rispetto alla Chiesa, ma all’esistenza. Che differenza c’è se guardiamo alla vita di tanti di noi cristiani oggi?

Ma qui sta il secondo pregiudizio: che il libro racconti di una vita come sconfitta. Dall’apparente dominante tristezza sbucano continuamente i segni di qualcosa di diverso. Quando il curato va a trovare la contessa e scopre le grandi bassezze di una famiglia apparentemente rispettabile, esclama: «I nostri peccati nascosti avvelenano l’aria che gli altri respirano». E nel dialogo si compie il miracolo: la nobildonna rivela che l’origine del suo cinismo affonda nel grande amore a un figlio morto precocemente, e per la prima volta accetta il suo destino e muore riconciliata con la vita.

Nel diario c’è un uomo che nel quotidiano «ha accettato una volta per sempre la terribile presenza del divino nella sua povera esistenza». Nel cancro che lo porterà alla morte, si vede una vita fino all’ultimo divenuta missione, quando chiede l’assoluzione finale dai peccati a un ex compagno di seminario tubercolotico che ha lasciato il sacerdozio. Non è solo abnegazione o sacrificio, è molto di più, come si capisce dalla predica di Pasqua: «Non è colpa mia se sono vestito come un beccamorto. Dopotutto, il Papa si veste di bianco, e i cardinali di rosso. Io avrei diritto di andare in giro vestito come la regina di Saba, perché porto la gioia».

Quella strana gioia che porta la fede anche nel dolore, la stessa che ho trovato in un biglietto di mio nonno vent’anni dopo la sua morte: «Nell’amore verso Gesù e Maria ho trovato la forza per proseguire quasi gioiosamente nella mia vita piena di lotte, di contrasti, di sofferenza e anche di bellezza». Il segreto di mio nonno e del curato di Bernanos, la speranza per ciascuno di noi.»

Per un giudizio

La percezione della potenza del male non è necessariamente (non lo è in Bernanos) negativo pessimismo. Può essere semplicemente realismo. Purché, appunto, il male non sia l'ultima parola, se l'uomo non lo vuole.

Nella Chiesa ci sono diverse sensibilità. Come del resto negli stessi autori sacri: l'autore del libro del Quoelet ha una sensibilità più percettiva del male (la vanità di tutto) di molti altri autori biblici, come l'autore del libro della Sapienza, o del Cantico dei Cantici.

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