Ibsen, Brand
Francesco Bertoldi
Poema drammatico in cinque atti (*)
E' il dramma, anzi la tragedia di un Cristianesimo pelagiano-rigorista: pelagiano, perché tutto poggia sulla volontà umana, rigorista, di un rigorismo tragico, nordico, protestante, perché Brand niente concede alla debolezza umana, il suo motto è "tutto o niente".
Giusto è il suo schifo per quella che un altro scandinavo, Kierkegaard, chiamava la Cristianità stabilita, che invece è teorizzata dal Decano, nel quinto Atto. Questi vorrebbe un Cristianesimo della mediocrità, interamente funzionale alle esigenza dello Stato, di uno Stato che mira a una tranquilità sociale a buon mercato, nemico delle personalità singole (altro riferimento a Kierkegaard). Giusta è la sua condanna di una divaricazione tra fede (domenicale) e vita (feriale), teorizzata dal Podestà.
Ma il suo rigorismo è implacabile e disumano: totale sprezzo del pericolo (allorché, per confessare un morente, sale su una fragile barca, sfidando una violentissima tempesta, nello stretto e inospitale fiordo, dove tutta la vicenda è ambientata), indifferenza alle opinioni della gente, insensibilità verso la sua stessa famiglia: violentando i suoi sentimenti si impone una impassibile serenità verso la morte del figlio, da lui stesso provocata, per la scelta di non spostarsi da quella landa senza sole, da lui vista come terra di una missione affidatagli, e verso la moglie, a cui l'imposizione del sacrificio di non piangere il figlio morto e di donare anzi a una zingara tutti i suoi vestitini, provoca una prematura morte, che, ancora per sua imposizione, ella deve accettare addirittura con gioia. Implacabile egli è anche verso la madre, che egli lascia morire senza sacramenti e senza il conforto di una sua visita filiale, perché non voleva rinunciare a "tutto", al suo attaccamento ai molti beni terreni. Ci sembra di poter vedere, nel colloquio tra Brand e i messaggeri, che fanno da intermediari tra lui e la madre morente, una analogia col colloquio tra Dio e Abramo, nell'imminenza del castigo a Sodoma. Solo che là Dio avrebbe concesso il perdono, se avesse trovato un minimo di disponibilità, qui invece Brand nega il perdono finché non trova la capitolazione totale alle sue condizioni. Laddove Dio si sarebbe accontentato dell'1%, Brand vuole il 100%.
Alla base di questo rigorismo, più kantiano che cristiano (ma non aveva mai letto della commozione di Gesù per la vedova di Naim, e per Lazzaro? non aveva letto di Gesù nell'Orto degli Ulivi?), di questo rigorismo che vede in Dio più un Padrone severo che un Padre, sta, paradossalmente, un sostanziale pelagianesimo: Dio manda sì dei segni, ma la sua grazia non permea efficacemente l'umano, a doversela cavare è la volontà umana, in una situazione di complessiva plumbea opacità del finito all'Infinito.
Da questa strana miscela di rigorismo e pelagianesimo esce un Cristianesimo tragico e votato alla sconfitta: si pensa che Dio voglia tutto, ma senza renderlo concretamente possibile. E' il mistero dell'Incarnazione a venir negato, negata è la contemporaneità di Cristo ad ogni uomo, in qualunque periodo della storia viva. Brand pone lo sguardo su di sé, sull'uomo, e la sua capacità di coerenza: non guarda a Cristo, se non come modello (Pelagio) di ciò che a lui è chiesto di fare. Non guarda a Cristo come a Uno che Gli viene incontro, per donargli tutto: pensa che Dio gli chieda tutto, e non vede che Dio gli dona, gli vorrebbe donare tutto.
Tutto grava come un enorme fardello sulle spalle dell'uomo, che addirittura, da questo corto circuito, è spinto alla follia: trascinare una folla disperata tra le brulle lande dei monti, stremandola con una marcia assurdamente defatigante, senza possibilità di riposarsi e di rifocillarsi, nella velleitaria idea di andare a predicare, con febbricitante ansia millenaristica, la necessità di seguire un Cristianesimo non annacquato, secondo il motto "tutto o niente". La follia lascia alla fine solo Brand, con l'unica compagnia della pazza Gerd, che alla fine, sparando un colpo di fucile contro una visione allucinatoria, provoca la caduta, su di lei stessa e su Brand, di una enorme valanga.
Traduzione: H.Ibsen, Brand, BUR, Milano 1995.
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