riflettendo sul don Chisciotte

un romanzo cattolico

Premettiamo che quelle che seguono non sono e non pretendono di essere riflessioni letterarie, ma filosofiche. Una delle più decisive domande che mi pongo è questa: don Chisciotte è un personaggio positivo o negativo? In alcuni passi dell'opera egli sembra decisamente positivo, una sorta di alter Christus: è povero, casto, obbediente, dona la sua vita per altri e soprattutto per aiutare, con instancabile abnegazione, gli afflitti, gli inermi, gli oppressi, nel contesto di una esplicito abbandono di fede in Dio. Ma per altro verso don Chisciotte è presentato come un folle, che agisce sulla base di una alterata percezione della realtà, dovuta a un insano eccesso di letture, e combina disastri, incluso il peggiorare la situazione degli "oppressi" da lui "liberati" (come, ad esempio, nel caso di Andrès). don chisciotte e sancio, stilizzati (19 kB)

umorismo cattolico

Si tratta forse di un'opera disimpegnata, di puro divertimento, dove il primo a divertirsi è l'autore, col suo seminare un inconcludente sconcerto? No. O meglio, vi è sì del divertimento, ma è un serio divertimento, una calcolata irresponsabilità; vi è un messaggio ben preciso, in questa dimensione inafferrabilmente caleidoscopica del romanzo di Cervantes.

Il messaggio ci sembra sia quello a cui allude von Balthasar:

Don Chisciotte (...) è un pezzo di dogmatica trascurato dai teologi cattolici, che da parte cattolica può essere percepito solo con l'umorismo, mentre Lutero ha tentato di esprimerlo tragicamente nella dialettica dei contraddittori della sola fides e dell'uomo «giusto e peccatore a un tempo».

È un messaggio antiprotestante, tridentino o, per meglio dire, cattolico: contrappone alla tragicità luterana, un ultimo senso di filialmente lieto abbandono a un Dio che è Padre, e che sa trarre del bene anche dal male, un Dio davanti al quale siamo comunque «servi inutili». Un messaggio che è molto vicino a certe espressioni di un'altra personalità spagnola, santa Teresa d'Avila: «non posso cadere che in Dio», e «siamo tutti nel gran calderone di Dio»; la stessa santa a S.Giovanni della Croce che la rimproverava della sua apparente leggerezza, dicendole «se pensassimo a quanto è tremendo e giusto Dio non mangeremmo mai dell'uva», rispondeva «se pensassimo a quanto è buono Dio, la mangeremmo più spesso».

Si badi, non si tratta di ambiguità, ma di ambivalenza, non di confusione, ma di "tensione polare" (per dirla con Guardini): il polo della serietà è affermato, ma al contempo, e non contraddittoriamente, lo è quello della percezione di una inevitabile sproporzione del limite umano alla misura infinita del Mistero.

Per questo riduttive appaiono interpretazioni che estrapolano una sola delle due polarità.

né solo positivo ...

Ad esempio un breve articolo che doveva introdurre al "Meeting di Rimini" 2005 (intitolato appunto a una frase sulla libertà detta da don Chisciotte), e apparso su Tracce di luglio/agosto 2005, sosteneva una tesi un po' troppo univocamente sbilanciata sul lato della positività dell'eroe di Cervantes:

Proprio all'inizio del capitolo don Chisciotte pronuncia la sua famosa frase sulla libertà: «La libertà, Sancio, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano dato agli uomini». Ad una lettura frettolosa queste parole potrebbero essere intese unicamente in funzione del contesto immediato nel quale vengono pronunciate; ma se ci si addentra nella riflessione si scopre un senso molto più profondo. La libertà di cui parla Cervantes, che patì cinque anni di prigionia e successivamente varie detenzioni, non è semplicemente quella di un uomo che può vivere secondo quel che gli pare e piace.

Cervantes sapeva per esperienza cos'è la libertà, e il suo don Chisciotte rappresenta fondamentalmente la lealtà verso un ideale che corrisponde infinitamente al cuore dell'uomo. È per questa fedeltà all'ideale del santo-cavaliere che egli è libero perfino se chiuso in una gabbia, come accade alla fine della sua seconda uscita. Nonostante abbia perso il senno infatti, don Chisciotte sa perfettamente qual è la sua missione nel mondo e ancor di più è cosciente del fatto che mai potrà portarla a compimento con le sue sole forze: sa che dipende totalmente da Dio. Lui sì che conosce la Sua magnanimità: «Coloro che ricevono sono da meno di coloro che danno. E così Dio è da più di tutti, poiché Egli è il datore supremo» (II, 58).

Don Chisciotte è certo del suo ideale e di Chi può portarlo a compimento, per questo è libero. È libero di fare qualunque sacrificio fino al punto di non soppesare le conseguenze né l'utilità delle sue azioni; è libero di gridare ai quattro venti e a chiunque incontra qual è questo suo ideale; è libero dai suoi fallimenti, dallo scherno altrui, dall'essere preso per pazzo; e infine soprattutto è libero da se stesso, perché per rimanere fedele all'ideale vince se stesso, come spiega Sancio mentre, insieme al suo malconcio signore, ritornano al paese (II,72). è particolarmente interessante vedere come alla fine, dopo aver recuperato il giudizio, don Chisciotte afferma in modo inequivocabile: «Benedetto l'onnipotente Iddio che mi ha concesso sì gran bene!» (II, 74). Può un uomo che si considera fallito affermare una cosa del genere? Quale sconfitto benedirebbe Dio? Don Chisciotte può farlo perché ha sperimentato una vittoria, la vittoria di Dio, e ciò lo rende veramente libero.

... né semplicemente negativo

Miglior punto di partenza ci è sembrata una valutazione, più sfumata ed equilibrata, di Cesare Segre, nella sua lunga e dotta introduzione all'edizione Mondatori del romanzo di Cervantes, dove sostiene un:

"atteggiamento bivalente di Cervantes verso il suo eroe: (..) non può non condividere il sogno eroico e generoso di don Chisciotte; considera follia il demandare a modelli letterari le modalità di attuazione che tempi, luoghi, opportunità" [cioè, diremmo noi, la realtà] "dovrebbero suggerire" (p. XXIX)

Vi è qualcosa di positivo in don Chisciotte: è certamente il suo tendere generosamente a un ideale, libero, effettivamente, come detto nel citato articolo di Tracce, "di non soppesare le conseguenze né l'utilità delle sue azioni; (..) di gridare ai quattro venti e a chiunque incontra qual è questo suo ideale; (..) dai suoi fallimenti, dallo scherno altrui, dall'essere preso per pazzo; e infine soprattutto è libero da se stesso". In un mondo meschino, in cui ognuno pensa al suo ristretto orticello, grande è una figura che si erge, disinteressatamente, gratificato solo dal peraltro irraggiungibile riferimento alla Dama Dulcinea del Toboso, a difesa dei deboli e dei perseguitati. Ma questa libertà, e nobiltà e generosità, hanno il grave limite, secondo Segre, di scontrarsi con una mancata attenzione alla realtà: "le cose a cui don Chisciotte crede non sono affatto ridicole, anzi sono nobilissime; quello che gli manca è la capacità di commisurarle alla realtà" (ibidem).

Forse però Segre eccede sul versante della negatività, per questa semplice ragione, che sembra ritenere don Chisciotte come caso raro, come inspiegabile eccezione, in un mondo di savi, di ben pensanti. Totalmente apprezzabile sul lato del fine, egli sarebbe totalmente ingiustificabile sul versante dei mezzi adottati, come una mosca bianca in un mondo dove la gente ragiona bene.

emblematicità del Chisciotte

In realtà, sostenendo questa tesi, non si coglie pienamente nel segno: prima di tutto perché la "gente normale" nel don Chisciotte tanto normale e tanto apprezzabile non è; e poi perché la "follia" dell'eroe è qualcosa di complesso.

Che la gente "sana di mente" non sia del tutto adeguata alla realtà lo si evince soprattutto laddove essa si fa burla di don Chisciotte, pensiamo soprattutto ai duchi, che per lunga parte del romanzo ospitano il cavaliere mancego, per divertirsi alle sue spalle, ma analogo giudizio di condanna l'autore lo esprime per altri beffardi, come don Antonio Moreno, il suo ospite a Barcellona, o come i ragazzini della medesima città. Non manca un'ultima bontà, sia nei duchi sia in don Antonio, e infatti essi vegliano perché nessuno scherzo fatto al folle cavaliere sia troppo pesante e pericoloso, tuttavia il loro divertirsi alle spese di un pazzo, oltretutto buono e di nobili intenzioni, appare evidentemente ingiusto, se non crudele e sadico. Deprecabilmente meschini sono quanti si burlano di lui, anche quando viene picchiato, e a sangue: come non è adeguato il puro di dover essere senza l'essere, così uno pseudo-realismo cinico non è a misura d'uomo, non corrisponde alla verità dell'umano. Vi è insomma, anche nel mondo degli apparentemente sani una strana insania.

D'altra parte la sfasatura della conoscenza in don Chisciotte non è qualcosa di tranquillamente univoco e ben stabilizzato. Non solo perché don Chisciotte, quando non pensa a questioni di cavalleria, ragiona benissimo, e si rivela anzi saggio, dotto, eloquente, più che assennato; non solo perché le contestazioni che la realtà fa alle sue teorie vengono prese in considerazione e risolte in modo quanto meno logicamente coerente, come effetto di incantesimi di cattivi maghi; non solo perché, quando il canonico, nel cap. 49 della prima parte, impietositosi di lui, cerca di fargli presente la sua follia, don Chisciotte risponde in modo non isterico, ma pacatamente razionale, fingendo anzi all'inizio di immedesimarsi, e molto bene, col punto di vista dell'interlocutore.

- Sembrami, signor canonico, che il suo discorso tenda a farmi credere che non abbiano avuto mai esistenza al mondo i cavalieri erranti e che i libri tutti di cavalleria sieno falsi, bugiardi, nocivi ed inutili alla repubblica. Ella aggiunge ch'io ho fatto male nel leggerli, peggio nel prestarvi fede, e peggio ancora nell'imitarli, intrapreso avendo di farmi seguace della durissima professione della errante cavalleria da essi insegnata; e nega che siano mai vissuti gli Amadigi o di Gaula, o di Grecia, o verun altro di quei cavalieri dei quali vanno piene le istorie.

- Così per lo appunto, come va ripetendo la signoria vostra, rispose il canonico." Don Chisciotte allora soggiunse.

- Vossignoria disse altresì che mi avranno recato molto danno siffatti libri coll'avermi fatto uscire di senno e ridotto ad essere rinserrato in una gabbia, e che sarebbe per me più saggio partito di farne l'ammenda, cambiando lettura ed applicandomi a quella di libri più utili, e da poterne trarre più istruzione e diletto.

- Così è, disse il canonico.

Come si vede don Chisciotte sembra ragionare con tranquilla argomentazione, per cui la sua può al massimo essere una lucida, e contenuta follia, diversa ad esempio dagli accessi imprevedibili e ciechi di Cardenio (cfr. I, 24 e sgg.).

Non è però solo per i motivi detti finora che la follia di don Chisciotte non è univocamente da condannarsi come patologia in senso stretto. Ma forse anche perché il pensare e l'operare di don Chisciotte sono, almeno un po', la cifra di una inquietudine, tipicamente moderna, ma non solo, circa il vero e l'oggettività.

C'è una dimensione storica di questa inquietudine/perplessità/esitazione. Non possiamo escludere che, consapevolmente o no, Cervantes partecipi di una esitazione moderna sul vero. In questo senso gli accosteremmo un pittore come El Greco, con la sua moderna dimensione di perplessità circa gli esatti contorni dell'oggettività.

In Don Chisciotte riteniamo ci sia in effetti la tematizzazione (tipicamente moderna) di una discrepanza tra apparenza e realtà. Il medioevo in effetti non concepiva, o almeno non nelle stesse proporzioni, tale discrepanza: per i medioevali la realtà ci è tranquillamente data, la vita è fatta di certezze, ciò che appare è ciò che è, e viceversa. Il medioevale, in questo senso, è paragonabile a un bambino, con le sue solide e irriflesse certezze. Nell'anima moderna affiora un atteggiamento paragonabile all'adolescenza: ciò che sembrava assolutamente certo, viene messo in discussione, si distingue tra apparenza e realtà, e la realtà viene vista come qualcosa che è oltre l'immediato apparire. Come un adolescente impara che non sempre gli uomini sono sinceri, che nella vita c'è inganno e dissimulazione, che perciò non basta affidarsi alla prima reazione immediata, ma occorre lungimirante calcolo, così l'umanità moderna affina la convinzione che non sia tutto dato e tutto chiaro, ma che occorra agire d'astuzia, e per conoscere una natura che ha molti segreti da carpire, e per padroneggiarla. Una cattiva interpretazione della scienza, ad esempio, fa sì che la filosofia moderna ritenga soggettive le qualità: dunque ciò che immediatamente appare ai sensi, come i colori, non è reale, ma apparente. Analogamente verso le "passioni" e l'affettività il rapporto si fa problematico: l'umanità moderna non vive più la sua dimensione affettiva come un dato, ma come qualcosa che vorrebbe poter calcolare e dominare. Dopo l'ingenua e irriflessa fanciullezza medioevale, insomma, viene la problematica adolescenzialità moderna.

don chisciotte divora libri (24 kB)

Cervantes vede tale nuova sensibilità, non la può respingere da sé, non la può ignorare, ma cerca almeno di metterla a tema e di impostarla in una prospettiva cristiana. Se il suo eroe sbanda, da un lato è emblema di una umanità divenuta avvertita della sua difficoltà a focalizzare bene dove stia concretamente il vero, e dall'altro è perché egli si è nutrito di una cultura libresca, avulsa da un contatto vivo con la realtà, cioè pensa in modo ideologico. Il suo sbandare da un lato ha una valenza in qualche modo positiva, ed è l'occasione per metterci in guardia contro troppo facili sicurezze, dall'altro il messaggio è anti-ideologico: non è nei libri (non solo nei romanzi cavallereschi, ma nemmeno, osiamo dire, nella stessa Scrittura, se avulsa, protestanticamente, dalla vita della comunità ecclesiale), ma nell'esperienza reale che affiora la verità.

Non occorre perciò pensare che Cervantes faccia professione di scetticismo, o che confonda il sogno con la realtà (tema peraltro ben presente alla letteratura, si pensi a Shakespeare o a Calderòn, e alla filosofia, Cartesio, moderne). Men che meno è lecito pensare che egli dubiti di quale sia la verità ultima sul reale, che ci sembra chiaramente indicata nel Cristianesimo (commovente a questo proposito, è l'inserto della "storia del prigioniero", che oltre ad essere in parte autobiografico, getta una chiara luce sul rapporto Cristianesimo/Islam). Vi è una dimensione sana di inquietudine, che non dubita del vero, della sua raggiungibilità, ma è avvertita della necessità del sacrificio di una propria presunzione, per poterlo attingere.