ritratto di Beethoven

De Gaudio ovvero An die Freude

Non è facile ridare, oggi, ai nostri sguardi e alle nostre menti quest'ode, composta da Schiller nel 1785 in un clima di ormai stanco illuminismo, pronto ad implodere nel Terrore della Rivoluzione francese e nell'utopia napoleonica che divise l'Europa. Europa calcata da soldati, perforata dalle granate e conculcata entro il muro di un umanesimo orgoglioso di costruire una civiltà razionale deista e naturalista non certo stupita davanti alla infinita grandezza e infinita miseria umana che sta “finchè il sole splenderà sulle sciagure umane”…

In questa temperie nasce la nona ed ultima sinfonia di Beethoven (l'ultima delle nove muse?) che egli aveva nel cuore da molti anni e che arrivò come un dono soverchiante, sovrumano, quasi divino. Arrivò insieme alla Missa Solemnis (sono le opere 123,124) del 1823 dove il senso religioso del Maestro di Bonn slanciatosi ai Cieli con il grido disperato di una terribile “spina nella carne” (la sordità) sembra voler pacificarsi con un ritorno alle sponde della liturgia con il suo canto gregoriano.

Il senso religioso, cioè, si lascia incontrare dal Divino che scende sul sofferente, solo, abbandonato dagli affetti e dagli amici come Giobbe, a suggerirgli chi è il Dio veramente divino: non più dunque titanismo, ma semplice preghiera. Basterebbe cantare con lui il terzo movimento – in Si b e Mi b, le tonalità calde amate da Beethoven-che si presenta come una ripetizione accorata, densa d' affetto, continua, infinita.

Che cosa avrà pensato, sentito, non sentito, in quegli applausi che non finivano e che egli ,volgendo ancora le spalle al pubblico ,non percepiva la serra di quel 7 maggio 1824 quando per la prima volta nel mondo fu eseguito l'Inno alla Gioia in cui traboccava tutta la rutilante, inquieta, impossibile Nona sinfonia?

Dopo quel momento di pace del terzo movimento, Beethoven ci fa entrare nel cratere di un vulcano: è l'inizio scabroso, sincopato, spezzato nell'armonia e nei ritmi del quarto ed ultimo movimento che poi proietta al Cielo nell'inno alle stelle e al loro Fattore indicando che la Gioia è il cuore dell'uomo che si sente “capace di Dio, cuore della Gioia.

No, no,amici…non così, ma cantiamo meglio, più dolcemente, più….insieme!

Si inizia così, con questa negazione che ci mostra quasi il capo grande e arruffato di Beethoven che si scuote,l'introduzione, scritta dal Maestro, alle strofe di Schiller.

L'ode non è tutta all'altezza della poesia pura, a volte è addirittura goffa, sempre troppo terrena.

Questo scuotimento del capo dice di un lunghissimo discorso iniziatosi nel cuore di Beethoven subito dopo aver letto, giovanissimo, i versi di Schiller. Appariva lontana una “sinfonia corale”: il Maestro fece più tentativi, ma doveva varcare l ‘oceano delle otto sinfonie e anni di fatica e tormento. Dall'ottava alla nona passarono molti anni… Dunque, già nel 1783 tentò di musicare An die Freude…Ma le parole andavano purificate; egli ne trascelse alcune strofe che qua e là corresse: la sinfonia corale infatti risultò essere qualcosa di immane, fortissimo, contenente le “pazzie” della settima. Tutto era come un fiume in piena pulsante sui timpani e gli instancabili contrabbassi. Tutto questo, ad un certo punto, si innalzò alle voci umane, le voci di due donne (soprano, contralto) e di due uomini (basso e baritono) sorrette dalla moltitudine (milionen!):

L'opera fu compiuta in breve tempo. L'anno 1823-24: tutto era cambiato.Napoleone finito, l'Eroica a lui violentemente strappata,Vienna, seconda patria del Maestro, dove fu osannato,roccaforte ed emblema di un ordine nuovo, la massoneria davanti alla Santa Alleanza…

L'ode alla gioia possiamo guardarla come un bassorilievo ellenistico, quasi un'” urna greca” contenente le lacrime dell'estrema fatica e della spasimante creatività di Beethoven.

Egli aveva sempre chiesto a Dio di poter offrire tutta la sterminata creatività che si sentiva nella sua carne e nelle sue ossa, come ci rivelano le parole quasi disperate del testamento di Heiligenstadt del lontano 1802…

Com'è dunque questa Gioia? E'una donna, è bellissima. Figlia del Paradiso (Eliso): ti chiede l'ebbrezza e te le dona.

“Noi entriamo, o divina,nel tuo tempio vibrando d'ebbrezza, di incandescenza, in un brindisi, in una libagione che consacra l'amicizia, l'essere fratelli perché circola lo stesso sangue tra noi; la generosa comunanza: amore a una donna scelta per sempre, pegno giurato dell'eroe alla battaglia, fedeltà all'amico fino alla morte”

Queste sono alcune delle immagini che si presentano nel testo, che ora ci mostra le rivoluzioni dei corpi celesti, globi di fuoco che attestano il Creatore.”Sì, inginocchiamoci, noi moltitudini di oggi, di ieri, di sempre; sì, tu, o mondo non senti su di te la mano che ti fa, che ti modella nella carezza che ti crea.?Tu, mondo,non percepisci il tuo Fattore, Colui che ti dà forma (Schopfer)? Egli DEVE abitare oltre il cielo stellato”

Fin qui le immagini celebrative che vediamo nel bassorilievo, in processione trionfale, ma anche come trasfigurate: l'uomo che partecipa alla Gioia vede il cherubino che sta davanti a Dio nelle altezze. Sdegnando superbo i legami umani, striscerà come il verme.

Ma tutte queste parole cedono i loro significati all'intreccio del contrappunto, dell'alternarsi dei ritmi di un tema (quello a tutti noto) battuto, tornito, accarezzato, contemplato per sette volte ( Presto, Allegro assai vivace,Alla marcia,Andante maestoso, Allegro energico sempre ben marcato,Allegro ma non tanto, Poco Allegro,stringendo il tempo,sempre più allegro; Prestissimo, Maestoso).

Rimandi e riprese, soli e duetti mirabili uomo-donna (soprano-tenore) sono come una fontana non più di spumanti calici ma quasi un altissimo vagito di bimbo che si annuncia in una nuova nascita. E'l ‘estremo della purificazione di Beethoven: non si distinguono più le parole, che si ripetono, si sopravanzano si battono sino a non essere più distinguibili in un singulto di gioia. Tale è la difficoltà di tenere insieme la orchestra, che i musicisti dovettero scrivere il testo-quel testo- sotto le parti dei contrabbassi per guidare questo carro di note infuocate fino al Prestissimo finale.
La Nona sinfonia fu amata, baciata,divorata, usata, abusata. I Potenti la volevano come inno coronante la loro forza: il freddo calcolatore Lenin indugiò a lungo prima di preferirle l”Internazionale”. Fu celebrata nel regime nazista,diretta con struggimento sofferente dal sommo Furtwaengler; I piloti giapponesi, dopo lo ultimo bicchiere di sakè e prima di esplodersi indarno verso i cieli, l'ascoltavano sull'attenti…

Fu vezzeggiata nei Paesi decolonizzati come possibile inno nazionale.

Piangendo la diresse, ormai vecchio, il grandissimo Leonard Bernstein: lui ebreo di origine, dopo “eine lange, lange Leben” come disse. Elevò il canto sempre nuovo (immer wieder) dei giovani e delle fanciulle tedeschi davanti alla Porta di Brandeburgo, smozzicata ma incrollabile alla fine (quella vera) della II guerra mondiale in quella indimenticabile fine del 1989. Spaccate le lastre del muro dell'Europa e del mondo.

Il coro di giovani voci cantava ancora in Tedesco, in quella Berlino indicante che la malvagità abissale dell'uomo alla fine cede alla Bellezza. “abbracciatevi milioni! Non vi inginocchiate o moltitudini?”

Oggi nell'Inno europeo la versione ufficiale tracciata dal grande von Karajan ha sostituito la parola Freude con la parola Freiheit. Forse a dire che si è liberi se si gioisce e si gioisce PERCHE'si è liberi…

A noi la responsabilità .

Sopra di me il Cielo stellato, del Tuo Cielo le stelle dentro di me!

Lorenzo Fornasieri