ritratto di Dante Alighieri

Il luogo dei sogni realizzati

Per chi volesse rileggere il «Paradiso» di Dante

[La Commedia e la teologia]

Più che una teoria della teologia, a comparire nella Commedia dantesca è l'"esercizio" della teologia stessa. Sarebbe certamente possibile e fecondo - ed è stato già in parte fatto - seguire analiticamente e rilevare i molteplici aspetti delle dottrine teologiche nel "poema sacro": da quella trinitaria - chiara e precisa, con buona pace di von Balthasar - a quella cristologica; da quella ecclesiologica a quella mariologica; dalla teologia della creazione e della redenzione, a quella del peccato e della grazia, o delle virtù della fede, della speranza e della carità, dei beati, o del lumen gloriae, o della visione beatifica, o della ineffabilità di Dio, o della stessa Sacra Scrittura.

Si tratta di prospettive teologiche dove acutezza e rigorosità si disposano allo splendore, riuscendo, così, di una suggestione unica: si pensi alla figura della Chiesa, di cui Dante ha saputo cogliere perfettamente e rendere il mistero (anche se la stessa Chiesa, nella sua forma storica, non manca di essere passionalmente oggetto della critica dantesca più mordace); o alla figura di Maria, della quale Dante ha mirabilmente delineato i lineamenti luminosi, collocandola nel modo più felice dentro l'economia della salvezza.

Maria è la Vergine Madre (Paradiso, XXXIII, 1); Colei nel cui grembo si è acceso Cristo - "si raccese l'amore" (Paradiso, XXXIII, 8) - e poté, quindi, sbocciare la Chiesa dei santi - "così è germinato questo fiore" (Paradiso, xXXIII, 9): i santi si dischiudono e fioriscono da Cristo germinato da Maria. Tutta la grazia divina "scaturisce da Maria, dal grembo del Dio fatto uomo (...). È grazia di Dio, che arriva (...) attraverso la mediatrice di tutte le grazie" (von Balthasar).

"Maria - secondo Valeria Capelli - ha un posto assolutamente unico nel disegno della Redenzione e nel cuore di Dante, tanto che la Commedia può anche definirsi un poema mariano". Scrive Forster: "Dante fa il teologo con le sue esposizioni dottrinali teologiche, e dove appaiono alcune delle figure principali della Commedia - come Virgilio, Beatrice, Tommaso, Bernardo - simboli o della teologia propriamente, o della iniziazione, o "preamboli" ad essa, com'è nel caso di Virgilio, e in parte di Beatrice stessa, non potendosi parlare di "vera e propria T(eologia)", se non a partire dal Paradiso (...). In sostanza, mediante il "modo" che gli era proprio, il "modo poetico", il Dante della Commedia - specialmente nel Paradiso - attese allo stesso compito che Tommaso aveva indicato ai teologi". "Quanto alle due corone di sapienti (come vedremo) che, nel cielo del Sole, circondano D(ante) e Beatrice", "sembra che stiano a rappresentare diversi aspetti della teologia", emergendo su tutti Tommaso, "il rappresentante di maggior spicco della teologia, non soltanto in conseguenza del grande discorso di XIII 52-141, ma anche in conseguenza dell'elevato tono "magistrale" delle sue parole in x 82-138" (Forster). Tralasciando i contenuti particolari, rileviamo il movimento o l'impianto teologico - e di "teologia soprannaturale" - generale della Commedia, che risaltano con chiara evidenza. Lo indichiamo per accenni.

Il primo segno teologico della Commedia - l'evidenza che essa trova la sua fonte e la sua materia nella teologia cristiana - appare dalla ragione che la fa nascere e che si colloca nel Paradiso, il "luogo" della Trinità e della "Grazia", da cui parte tutto il movimento che la conduce; o il "luogo" di quell'amore che, suscitando il desiderio, attrae l'universo, e l'uomo, in particolare, di cui Dante è come un simbolo concreto, o il caso singolare, ma esemplare.

[Il desiderio di vedere Dio]

Nella Commedia - tutta, a sua volta, attraversata dal "desiderio di vedere Dio" - il poeta "fa della sua vicenda un exemplum per tutta l'umanità" (Capelli). Ecco perché il Singleton può scrivere: "Il viaggio del poema è il viaggio dell'inquieto cuore cristiano e la sua presenza nella struttura costituisce il vero pulsare dell'opera tutta".

Al principio della Commedia sta l'Amore divino, il "primo Amore" (Paradiso, XXXII, 142), che tutto muove (Paradiso, XXXIII, 145), e che è per l'uomo - per Dante in particolare come caso di tutta l'umanità - un amore di redenzione e di salvezza.

Senza questo Amore, dal quale tutto è attraversato e sorpassato, e che nella vicenda cristiana del poeta appare coi tratti non della "natura", ma della "pura grazia", non sarebbe incominciato nulla: non la vicissitudine della conversione di Dante e non la sua Commedia, che ne è la poetica narrazione, in una solidarietà tra "vissuto" e "letterario", che non ci è dato - riteniamo - di comprendere o interpretare sino in fondo.

Quanto all'esito della Commedia, anzitutto, è, esattamente, lo stesso termine della teologia, la visio Dei et beatorum (cfr Summa Theologiae, I, 1, 2, c.): il Paradiso, che muove, unifica e rappacifica tutto il poema, concludendo il dramma personale che lo ha suscitato e sostenuto, è lo stesso che, di là dagli enuntiabilia, soddisfa la ragione e il cammino della teologia.

Tommaso scrive che gli enuntiabilia della fede mirano a risolversi nella "realtà"; esattamente actus credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem, ed è esattamente quanto avviene con la visione beatifica.

La teologia, fondata sulla fede, è radicata nel desiderium videndi Deum, esaltato dalla grazia, ed è tutta intesa alla contemplazione, e quindi alla comunione, della Trinità, dove "è perfetta, matura e intera/ciascuna disïanza" (Paradiso, XXII, 64-65).

La Commedia si fonda sulla convinzione che la visione della Trinità è l'approdo dell'uomo, il "fine di tutti i disii", dove ogni ardente desiderio si trova compiuto. Dante lo dirà con parole inarrivabili: "E io ch'al fine di tutt' i disii / appropinquava, sì com'io dovea, / l'ardor del desiderio in me finii" (Paradiso, XXXIII, 46-48).

Tommaso d'Aquino scrive: "La visione del Padre è il compimento di tutti i nostri desideri e di tutte le nostre azioni" (Super Evangelium Ioannis, 14, lect. 3).

Per Dante ascendere al Paradiso significa muoversi nel mondo della "trasumanazione", da cui è resa impotente la capacità della parola o la forza del ricordo, o l'adeguatezza del concetto: è un mondo che solo può essere conosciuto da chi ne abbia l'esperienza: "Trasumanar significar per verba / non si poria; però l'essemplo basti / a cui esperienza grazia serba" (Paradiso, I, 70-72).

Tommaso, richiamandosi sia a Paolo e al suo rapimento sia allo pseudo Dionigi parlerebbe di una conoscenza per connaturalitatem, di un pati divina (Summa Theologiae, I, 1, 6, ad 3m).

Il poeta insiste su questa impossibilità di "ridire" quanto ha sperimentato e visto in Paradiso: "Vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende; / perché appressando sé al suo disire, /nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire" (Paradiso, I, 4-8), Dante, alla fine, si trova vinto dall'eccesso di luce. Il Paradiso è tutto plasmato di diffusa luminosità, di uno sfavillare "candente". "Oh vero sfavillar del Santo Spiro!" (Paradiso, XIV, 76): uno sfavillare che si accende negli stessi beati, li delinea e li trasfigura, e che brilla nel sorriso e nel riso degli occhi.

Le immagini ritornano: "Lo splendor de li occhi suoi ridenti" (Paradiso, X, 62); il "lume d'un sorriso" (Paradiso, XVIII, 19); ricorre il verso: "Sorridendo (Beatrice) ardea ne li occhi santi" (Paradiso, III, 24); e il "fiammeggiar" che "esce del riso (di Graziano)" (Paradiso, X, 103).

Giustamente si è parlato di una "metafisica della luce" presente in Dante (Corti); e, infatti, il suo è un salire di luce in luce fino all'"etterno lume" (Paradiso, XXXIII, 43), che ne è la sorgente; e fino all'eccesso finale, del canto XXXIII, che fa cedere la parola e la memoria e ogni possibilità della fantasia. "Dante ci mette di fronte al dramma dell'insufficienza umana e della ineffabilità del divino" (Corti).

La teologia parlerà della necessità del lumen gloriae per la sopportazione della visione beatifica (Summa Theologiae, I, 12, 2, c.).

Per tornare a san Tommaso: egli dirà questa ineffabilità col linguaggio tecnico della teologia come scienza, là dove, definendo la sacra dottrina come sapere "subalternato", la sospende e la avvita tutta alla "scienza di Dio", ora attingibile e disponibile, per l'"uomo viatore", solo con i mezzi inadeguati e laboriosi degli "enunciabili", rispetto a un Dio sul quale ogni tentativo di presa constata il suo fallimento, per il "supervalere" divino, che incessantemente sfugge e si sottrae.

Scrive l'Angelico rispondendo a chi vorrebbe un totale silenzio sulle realtà divine, ossia una ineffabilità assoluta: "Dio si onora col silenzio non perché non si dica nulla o non si indaghi nulla su di lui, ma perché, qualunque cosa su di lui diciamo o indaghiamo, ci rendiamo conto che non siamo riusciti a comprenderlo, per cui nell'Ecclesiaste si afferma: "Per quanto ci si impegni a glorificare Dio, Dio prevale sempre": Dio "prevale" e sta sempre oltre" (SuperBoetiumDeTrinitate,q.2, a. 1, 6m).

La teologia è, così, un "appetito" inappagato, o uno struggente desiderio, sofferto da Tommaso fino all'esaurimento, quasi alla dichiarazione di insuperabile inabilità che, alla fine della vita, gli sembra esito di fallimento di quell'officium sapientis, intrapreso come scelta di vita, totale e assoluta, e rispetto al quale nulla è proclamato di più perfetto, di più sublime, di più utile e di più giocondo: Venit finis scripturae meae: "È giunta la fine del mio scrivere" (Guglielmo di Tocco, Ystoria sancti Thome de Aquino c. LXXIX).

Chiaramente teologico è il viaggio di Dante. Si potrebbe parlare di un itinerarium mentis in Deum, che avviene non nella modalità mentale o riflessione, ma in quella "reale" (della realtà che Dante assegna al cammino della Commedia); esso è un andare in Paradiso, un entrare, per "abbondante grazia" (Paradiso, XXXIII, 82), nella "luce etterna" (Paradiso, XXXIII, 83), nella quale la creazione è compresa nella sua originaria e radicale connessione, divinamente tenuta insieme dall'amore: "Nel suo profondo vidi che s'interna / legato con amore in un volume / ciò che per l'universo si squaderna" (Paradiso, XXXIII, 85-87).

E, più ancora, Dante raggiunge nel "beato regno" (Paradiso, I, 23) la visione della Trinità e dell'Incarnazione, con la meraviglia e il sospiro del poeta "che misura l'inadeguatezza del suo linguaggio (...) a ridire ciò che gli apparve" (Chiavacci): "Oh quanto è corto il dire e come fioco, / al mio concetto" (Paradiso, XXXIII, 121-122).

Ma citiamo i versi stupendi fatti di dogma, di poesia e di mistica: "Ne la profonda e chiara sussistenza / de l'alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d'una contenenza; / e l'un da l'altro come iri da iri / parea reflesso, e 'l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri" (Paradiso, XXXIII, 115-120).

E come è colta l'incarnazione: "Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume reflesso, / da li occhi miei alquanto circunspetta, / dentro da sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta de la nostra effige: / per che 'l mio viso in lei era messo" (Paradiso, XXXIII, 127-132).

Del resto, Dio stesso suscita in chi è nel Purgatorio l'accoramento della sua visione, in ogni caso condizione per la riuscita dell'uomo: "E del disio di sé veder n'accora" (Purgatorio, V, 57).

Lo stesso Inferno - come Dante lo concepisce, pur con tutta la sua fantasia - è una voce e un contenuto dell'ordine dell'economia della grazia, o della fede, mancando la quale l'uomo, anche quello in buona fede, si trova in una condizione di sospensione e di invincibile ed eterno disagio.

"Il Poema è la narrazione di un viaggio", che appare "come struttura portante e principale metafora" (Capelli); "Sotto il disegno di un viaggio tutto è intessuto" (Singleton), ma appunto di un viaggio che richiama, e traduce in linguaggio metaforico, fantastico e poetico, il reditus, della Secunda Pars della Summa Theologiae dell'Angelico.

Dovremmo anche parlare del linguaggio teologico della Commedia, poeticamente trasfigurato con una genialità unica. Si sa che in Dante, nel "volgare" vivo e accessibile, nella "lingua quotidiana", conservata intatta fino a oggi, la realtà si converte, come per contatto immediato, in lingua, e le cose improntano e generano le "voci", accendendosi e quasi trasformandosi in esse.

Dantepossiedelacapacità di plasmare, con la forza e sotto l'impulso delle res, le voces nuove e brillanti, che vi corrispondono e le lasciano trasparire.

Sarebbe una ricerca illuminante, per esempio, studiare nella Commedia il linguaggio poetico di singoli aspetti della teologia. Ne diamo un esempio a proposito della creazione, in apertura del canto X del Paradiso. La precisione dogmatica, la proprietà e la rifinitura dei concetti si trovano assunte nella trasfigurazione della poesia e di una emozione contemplativa che lascia stupefatti e incantati come dinanzi a un effettivo capolavoro di espressione: "Guardando nel suo Figlio con l'Amore / che l'uno e l'altro etternalmente spira, / lo primo e ineffabile Valore / quanto per mente e per loco si gira / con tant'ordine fé, ch'esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira" (Paradiso, X, vv. 1-6).

Tutto è creato dal Padre mentre guarda il Figlio nell'Amore, ossia nello Spirito che l'uno e l'altro vicendevolmente effondono: le cose esistono grazie a questo sguardo dell'amore paterno; il loro essere è dentro il Figlio compiaciutamente e amorosamente contemplato dal Padre.

La loro sorgente è qui: nella Trinità, in Dio che affettuosamente e gelosamente ama dentro di sé le cose create, la sua "arte", quasi vezzeggiata, senza che mai ne distolga i suoi occhi divini. Il lettore è invitato da Dante "a vagheggiar ne l'arte / di quel maestro che dentro a sé l'ama, / tanto che mai da lei l'occhio non parte" (Paradiso, x, 110-12).

Secondo il fine rilievo di Anna Maria Chiavacci: "La precisione teologica (...) sembra sposare la bellezza dell'espressione".

O avrebbe tutta la sua suggestione una analisi del linguaggio, per esempio, dell'esperienza "mistica" o del "trasumanare" (cfr Paradiso, I, 70), quello in cui si trasfonde il contatto intimo col mistero, che non pare sia nella Commedia semplice finzione letteraria, e che, per altro, è subito riconosciuto come refrattario alle voces e solo percepibile per esperimentazione.

I giudizi definitivi di valore, sia teoretici sia pratici, sono enunciati nella Commedia dal profilo teologico o a partire dal criterio "ultimo". Senza dubbio, nella Commedia c'è tanta "filosofia", etica, politica, e materie d'altro genere; c'è una dimensione di umanesimo e di ragione, che in certo modo l'attraversa tutta, e che Dante apprezza altamente e positivamente; ma egli non solo ne professa, ma ne sente il limite, ed è il motivo per cui avverte e giustifica la necessità di passare dalla ragione di Virgilio, competente solo in "quanto ragion (...) vede" (Purgatorio, 46), e dal quale non è esaurientemente "disfamato", a Beatrice, cui pertiene tutto ciò che è "opra di fede" (Purgatorio, 48), e che pienamente gli soddisferà ogni desiderio di sapere (Purgatorio 76-78), dal momento che vive nel mondo teologico, quello che è nutrito dalla fede e si compie nella beatitudine dove la fede è maturata.

In questa prospettiva si rivelano chiaramente significative del movimento e della finalità unitariamente teologica della Commedia appunto le guide alle quali Dante si affida: prima Virgilio, poi Beatrice e quindi Bernardo di Clairvaux. Ne abbiamo appena vista la motivazione.

Virgilio è la ragione, anche se una ragione piuttosto singolare, visto quanto nella Commedia il Virgilio dantesco - ovviamente non quello storico - discorra, lui "infedele", del mondo della fede e del Paradiso, dimora di Beatrice, dove la fede è diventata contemplazione, e quanto sorprendentemente egli sia docile al concerto di grazia, in atto per la mediazione delle "tre donne benedette" (Inferno, 124).

Si è infatti notato che, per quanto lo stesso Virgilio rappresenti il mondo o il momento della "ragione", in realtà, nella Commedia "non c'è (...) più alcun dualismo tra fede e ragione, natura e soprannatura (...), ma integrazione in una visione rigorosamente unitaria" (Capelli), che è la visione teologica, anche se, certamente, la filosofia resta estranea, nella misura della sua condizione "storica", priva di fede - gli "spiriti magni" non sono in Paradiso, mentre lo sono i sapienti del cielo del Sole, che pure hanno tanto esercitato la filosofia, o ne hanno fruito.

Beatrice non basta più per il sublime e decisivo tratto dell'itinerario. Come se a essere necessario sia un grado di santità più alto, o non sia più sufficiente la teologia (Beatrice è nella visione di Dio, a cui la teologia confluisce), ma occorra una mistica, un rappresentante della théologie mystique, o una guida che abbia avuto un'esperienza intima, come l'abate di Clairvaux, scelto come dottore mariano, cui è affidato il canto alla Vergine; e, forse ancor più, per l'"amore (che) lo ha trasfigurato".

Quest'ultima espressione è di Gilson, che con penetrante finezza osserva: "La conclusione del poema sacro non è altro che l'unione dell'anima con Dio. (...) Beatrice si ritira e lascia al suo posto quest'uomo che l'amore ha trasfigurato a immagine di Cristo, Bernardo di Clairvaux". E prosegue: "Dante (...) dal momento in cui comincia a sentire i primi ardori dell'amore estatico, comincia anche a dimenticare Beatrice. Ben lungi dal formalizzarsi per questo, Beatrice piuttosto se ne compiace, perché, simile alla fede, essa è venuta solo per potersi poi eclissare". "Virgilio fino al Paradiso terrestre, poi Beatrice, infine san Bernardo di Clairvaux".

Non è più il tempo della sacra dottrina che per studium habetur, come direbbe san Tommaso (Summa Theologiae, I, 1, 6, 3m), ma il tempo - e l'espressione è ancora di Gilson - della "mistica unitiva", che san Bernardo, per l'intensità del suo desiderio e del suo amore, agli occhi di Dante rappresentava.

Tommaso aveva scritto: "Dove maggiore è la carità, là maggiore è il desiderio; ora il desiderio in certo modo rende il desiderante atto e preparato a ricevere il desiderato. (...) Qui possiede maggior carità, vedrà più perfettamente Dio e sarà più beato" (Summa Theologiae, i, 12, 6, c).

È, d'altronde, il destino ultimo della teologia: la conoscenza che definitivamente prorompe - come direbbe Tommaso d'Aquino - nell'amore.

(da L'Osservatore Romano - 16 luglio 2008