ritratto di Dante Alighieri

Dante e Benigni

«Io, Dante e Gesù Cristo»

Intervista a Roberto Benigni, che sta leggendo l’«Inferno» in tv. "Quand'ero ragazzo leggevo il Poeta come se andassi in farmacia. Curava da tutti i mali. Si può amare la Divina Commedia senza credere in Dio ma non senza conoscere il cristianesimo"

Il nuovo Benigni è intelligenza più innocenza. È letizia più umiltà. Come si fa a rendere sulla carta questa miscela, questo impasto esplosivo? Più facile richiamare alla mente come l’abbiamo visto in queste settimane nel Tuttodante televisivo, quando irrompe saltellante sul palco ligneo di Piazza Santa Maria Novella a Firenze scortato dalle note della sigla che prelude alle sue apparizioni. E più facile soffermarsi sulla passione che trabocca dalla sua lettura della Commedia.

Domani sera lo vedremo ancora su Raiuno con il XXVI dell’Inferno e poi mercoledì, in prima serata con il XXXIII, il canto del Conte Ugolino. Pura follia per la nostra tv. Se un marziano precipitasse in Italia e guardasse i quiz, i reality e i giochini, imbattendosi nel Benigni dantesco intriso di poesia, amore e spiritualità, troverebbe in lui un compagno. Il Benigni che disvela e declama la condanna dei lussuriosi Paolo e Francesca «galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse», dell’eretico Farinata degli Uberti che «el s’ergea col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto», del Conte Ugolino, traditor della sua Pisa che «la bocca sollevò dal fiero pasto», è un marziano di questa tv, un alieno, un extraterrestre non solo per l’ardire del cimento - la Divina commedia - o per il contesto che ha scelto - la volgarissima televisione - ma anche per il senso dell’avvenimento contenuto in ciò che fa e dice lo stesso Benigni.

Per esempio: questa intervista - niente politica è la condizione posta - avrebbe dovuto svolgersi via e-mail, ma poi lui ha preferito che ci parlassimo «perché spero che la voce, il tono, il suono della parola, trasmettano qualcosa di più di un testo scritto, magari preciso preciso, ma alla fine statico».

È così il nuovo Benigni: quando si muove fa succedere qualcosa e lui stesso desidera che succeda. Perché, prima di tutto, dev’essere successo qualcosa in lui, se è vero che da qualche tempo si mostra più sensibile, più attento ai temi della spiritualità e del cristianesimo. Niente di nuovissimo se ci si pensa. Però, fin dai tempi dell’ultimo del Paradiso - «Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile alta e più che creatura» - recitato al Festival di Sanremo, correva il 2002, qualcosa dev’essere pur accaduto...

«Quella - mi travolge, subito torrenziale - è stata la cosa più vertiginosa, più folle: Dante al Festival di Sanremo. È il luogo che lo trasforma, lo fa esplodere. Dante scoppia in un posto così, che sembra il suo contrario. C’avevo una paura... Ma quando ho paura di una situazione, mi vien voglia di buttarmi, di andarci dentro. Come quando ho fatto La vita è bella, o il film sulla mafia, o sull’organo sessuale femminile. Andare a cercare il rischio, i posti sconosciuti, le zone pericolose è la missione dei comici».

Gli specialisti storcono il naso per l’esegesi linguistica di Benigni. Non è rigorosa, non è ortodossa, dicono. «Ci sono tanti modi di leggere Dante. C’è quello adolescenziale, dell’immedesimazione. C’è quello giovanile, della ricerca dei messaggi, quando ognuno di noi vuol trovare la via per diventare adulto. A me la Commedia è entrata dentro fin da ragazzo. Prima la leggevo come se stessi andando in farmacia, mi curava da tutti i mali. Poi ho imparato ad ascoltarla con innocenza, che per me è il modo giusto, quando la ascoltavo dai contadini, dai vecchi di casa mia. E ho scoperto che Dante ti fa sentire che ci sei solo tu, ti spiega tutti i dettagli, come in una confidenza personale. Quando mi chiedono se è ancora moderno è come se mi chiedessero se è moderno il sole, l’acqua. Io voglio solo trasmettere il fatto che mi piace, che mi dà gioia».

Trasmette anche una densità spirituale inaspettata... «Dante ci fa entrare in quello che solo l’intelligenza è in grado di cercare ma, da sola, non è capace di trovare. La sua forza è essere profondamente laico. Non ha atteggiamenti pappalardeschi, come direbbe lui, da falsi devoti. È religioso senza essere mai pretesco, bigotto. Non si rivolge a Dio, alla Madonna, ai santi. Si rivolge alle Muse, ad Apollo. Il suo universo è la poesia. Si può leggere la Divina commedia senza credere in Dio, ma non senza conoscere il cristianesimo. A parte che tutta la nostra civiltà è cristiana senza saperlo - e il senza saperlo è forse la cosa più bella - lo si vede da ogni cosa che facciamo... La poesia ci aiuta a compiere un’esperienza irripetibile di libertà, è finzione e ritmo, ma ci aiuta a intraprendere un grande viaggio alla ricerca di uno sguardo. Quello sguardo che solo le donne posseggono e che ci introduce nel punto più segreto del mondo».

Nelle lectio Dantis Benigni passa spesso dalla Commedia al Vangelo, si sofferma a spiegare le parabole, mostra di subire il fascino della persona di Gesù Cristo... «Come si fa a non restare affascinati dalla figura di Gesù Cristo? Si legge il Vangelo e ci si chiede “chi è questo qui?”. Io lo leggo per piacere - leggo anche altri libri della Bibbia come quello della Sapienza - ma resto sconquassato dal Vangelo, basta un rigo delle parabole. Ha una forza spettacolare, viene da alzarsi in piedi sulla sedia... C’è dentro una violenza che ti mette le ali. Una forza che ti scarabocchia tutta la vita. Perché ti dice che puoi sempre ricominciare da capo. Ti mette nella condizione di fare ognuno la rivoluzione dentro te stesso. Prima che arrivasse Gesù il rapporto con Dio era fatto di dolore e lui se l’è preso tutto su di sé. Per me è una cosa sconcertante» si entusiasma Benigni. Che poi frena, come pensando ad alta voce: «... anche se non sono sempre della mia opinione... Lo dico per sdrammatizzare, per relativizzare, per prenderla leggera».

Sarà, Benigni, ma lei oggi sembra un altro... A differenza di altri artisti in voga, ha una posizione più costruttiva... «Come diceva Vauvenargues, in realtà sono poche le cose che ci consolano perché sono poche quelle che ci affliggono. Io faccio il comico e anche i comici cambiano. Le cose comiche, le sciocchezze, sono sublimi. La felicità non sta nell’assenza dei contrasti, ma nell’armonia dei contrasti. È questa armonia a essere costruttiva. Se uno vedesse quello che ero vent’anni fa non mi riconoscerebbe. Certi uomini sono come le montagne: più si innalzano e più diventano freddi. Io dico grazie a Dio perché ci sono i comici che ci ricordano sempre che siamo piccoli».

Ha usato la parola delle parole, Benigni. Felicità. Ma quando gli chiedo che cos’è per lui, si ritrae. «Non glielo direi mai. I comici hanno sempre un volto triste. Ma, come diceva Stanislavskij, per trasmettere felicità bisogna essere felicità. Che cos’è per me non glielo dirò mai. Al massimo - rilancia - se un giorno ci incontriamo, posso farglielo vedere».

Già, della felicità non si parla. Semmai, s’incontra.

Il Dante di Benigni

Dante farmacista che «cura tutti i mali». Dante che «ti scarabocchia la vita». Dante moderno «come il sole, l’acqua». Roberto Benigni non si è smentito, nell’intervista concessa ieri al Giornale. Ha tracciato, con il consueto lessico colorito e con la consueta verve, un ritratto dell’Alighieri (e di se stesso come suo fedele e appassionato lettore televisivo - in piazza Santa Croce a Firenze, e non, come erroneamente scritto ieri, in Santa Maria Novella) che farà storcere il naso a qualche professore, ma porta la poesia nelle case e nella testa di tutti. Ha toccato anche il tema della fede, Benigni, a modo suo. Per questo abbiamo chiesto il parere di monsignor Rino Fisichella.

«Vale come una preghiera»

articolo di Andrea Tornielli - lunedì 11 febbraio 2008, 07:00

Ci fa gustare la “Commedia” e l’avvicina ai giovani

«Quella di Roberto Benigni, quella dei grandi interpreti della letteratura in televisione, è una scommessa vincente. Il servizio pubblico deve essere capace di compiere scelte coraggiose e promuovere vera cultura». Monsignor Rino Fisichella, vescovo e rettore della Pontificia università Lateranense, l’ateneo del Papa, ha davanti a sé la pagina del Giornale con l’intervista a Benigni. «Mi ha molto colpito, domani (oggi per chi legge, ndr) devo tenere un incontro con molti sacerdoti e partirò proprio da alcune delle sue espressioni su Gesù».

La sorprende questo successo delle letture di Dante?

«Nella sua trasmissione non c’è solo il fatto positivo di riportare in primo piano un grande protagonista della letteratura, c’è anche un grande interprete che fa gustare Dante e avvicina i giovani alla Divina Commedia: è una svolta di cui non solo la televisione, ma più in generale il nostro Paese ha bisogno».

La letteratura, l’incontro con grandi autori, può aiutare la fede cristiana?

«L’incontro tra letteratura e cristianesimo è uno dei più fecondi. La letteratura indaga il mistero dell’uomo, ci fa capire in modo espressivo che nel cuore dell’uomo albergano interrogativi, grandi domande di senso, di significato. Domande che non possono essere espresse con il linguaggio scientifico. La letteratura evoca, ci fa intuire il grande mistero dell’esistenza e le domande costitutive del nostro essere uomini».

Forse, ci sarebbe più bisogno di maestri in grado di far vibrare quei testi...

«Guardiamoci alle spalle: che cosa sarebbe stata l’umanità senza Omero, Sofocle, Dante Alighieri, Pascal o Papini, Bernanos e Peguy? In questi come in altri grandi autori risplende una capacità di esprimere la bellezza del cristianesimo, più che in tanti libri di teologia. Penso al Diario di un curato di campagna e a come quelle pagine esprimano la forza di un amore che ama e perdona».

Ci sono stati maestri ed educatori che hanno avvicinato generazioni alla lettura dei classici. Ad esempio don Luigi Giussani, che citava il Canto alla luna di Leopardi per evocare la domanda di felicità e compimento dell’uomo.

«La letteratura, non necessariamente cristiana, provoca il credente, la fede, la teologia a percepire la drammaticità dei grandi interrogativi del cuore umano. È stata anche la mia esperienza personale di docente, quando insegnavo alla IV ginnasio e iniziavo le mie lezioni con le pagine del Piccolo principe di Saint-Exupéry. Grazie a quelle pagine arrivavo ai nodi fondamentali dell’antropologia e della fede. Non vorrei poi che dimenticassimo che la Bibbia stessa ha testi stupendi di alta letteratura e di alta poesia. Prendiamo il Cantico dei Cantici o i salmi, o gli interrogativi espressi nel libro di Giobbe. Heidegger riconosceva che la poesia è la forma culminante per esprimere la realtà. Arte e letteratura sono una ricchezza inestimabile per la religione, che senza queste espressioni sarebbe impoverita e non esprimerebbe il mistero di Dio che si fa uomo».

Benigni ha detto: «Come si fa a non restare affascinati dalla figura di Gesù Cristo? Il Vangelo ti dice che puoi sempre ricominciare da capo. Ti mette nella condizione di fare ognuno la rivoluzione dentro se stesso. Prima che arrivasse Gesù il rapporto con Dio era fatto di dolore e lui se l’è preso tutto su di sé»...

«Parole che indicano quanto sia entrato nella profondità delle pagine evangeliche. Gesù, il figlio di Dio, con la sua esistenza ha dato una risposta alla nostra domanda di felicità e di significato».

Questo approccio ha qualcosa da insegnare a chi predica o insegna il catechismo?

«La bellezza va contemplata e contemplare significa anche rimanere in silenzio ad ascoltare chi ci propone un brano di letteratura. Vorrei ricordare, a proposito dell’inno “Vergine Madre Figlia del tuo Figlio”, che per noi quelle parole di Dante diventano preghiera, nella Liturgia delle Ore, in occasione di ogni festività mariana».

Benigni osserva che «tutta la nostra civiltà è cristiana senza saperlo - e il senza saperlo è forse la cosa più bella - lo si vede da ogni cosa che facciamo».

«È un’osservazione acutissima. Credo dovremmo prendere coscienza del fatto che tutto ciò che respiriamo trova compimento e fondamento in quel messaggio d’amore che è il Vangelo».