ritratto di Cesare Pavese, una delle sue piu

Cesare Pavese

«La vita ha valore solo se si vive per qualcosa o per qualcuno»

A cent’anni dalla nascita (e mentre esce tra “i libri dello spirito cristiano” un volume di Gianfranco Lauretano che ne ripercorre la vicenda), viaggio nella vita e nelle opere di un autore che ha segnato la nostra storia recente. Perché, come dice il suo biografo Lorenzo Mondo, «ha perforato la crosta della realtà». Per fare i conti con il destino «La vita ha valore solamente se si vive per qualcosa o per qualcuno». Basterebbe questa frase, tratta da La casa in collina, per cogliere lo spessore e l’inquietudine di Cesare Pavese. Autore pilastro del nostro Novecento, narratore senza arabeschi ombelicali. «Cesare Pavese - spiega Lorenzo Mondo, l’ex vicedirettore de La Stampa che da una vita lo studia - è uno scrittore religioso. E accanto a questo, o proprio per questo, è profondamente calato nella realtà. Non scrive per sé, perfora la crosta della realtà e ci porta in profondità». Insomma, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: la religiosità è quella di un uomo che fa a pugni con le cose e non ci conduce in regioni rarefatte o remote, ma dove i nervi scoperti della nostra coscienza vengono toccati uno a uno. Ecco perché a cento anni esatti dalla nascita, avvenuta a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908, vale la pena riaccostarsi alla sua opera. Il suo lavoro, per così dire, di setaccio esistenziale è straordinario: Pavese ci conduce alle porte del destino, quello personale di ciascuno, e quello corale di tutti noi, scruta con la lente della sua scrittura l’anima umana, le sue infinite aspirazioni, le sue domande irriducibili, le sue in-certezze. Il tutto con una prosa, e talvolta una poesia, che è insieme epica e quotidiana, tesa al cielo e impastata di terra. Prendiamo il finale de La casa in collina (romanzo in cui il protagonista, Corrado, scappa da Torino, sconvolta dai bombardamenti, si rifugia sulle colline, poi torna al paese natale nelle Langhe). Quell’immagine terribile dell’Italia lacerata dalla guerra civile, dal disastro seguito all’8 settembre. «Lo scrittore è fra i primi ad affrontare il tema della guerra civile e lo fa da par suo», riprende Mondo. «“Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: e dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero”. Queste parole disegnano una prospettiva che sfugge alle letture ideologiche».

Un uomo libero

In che senso? «Pavese nel Taccuino segreto ha ventilato una riforma del fascismo; poi dopo il ’45 si è infiammato per il comunismo, ma tutte e due le volte l’accostamento è stato personalissimo, non ortodosso. Pavese è un uomo libero. E ce lo dimostra anche quel brano: si sente la pietà, la pietà per i morti che non ha colore politico e che scandalizza i vincitori imbevuti della retorica resistenziale, si percepisce quell’ansia di verità, quell’intreccio così pavesiano fra vita, guerra, morte, destino». Lo scrittore è tutto in quell’intreccio. Il suo fascino nasce in quel punto preciso. Così alto e così profondo. Così religioso e così terreno. «Pavese gira e rigira su alcuni temi», nota Gianfranco Lauretano, studioso che ha appena pubblicato un libro di viaggi pavesiani. «Due, in particolare, mi colpiscono: il destino, inteso come qualcosa di incompiuto e incombente, e il ritorno; il ritorno alle radici, a casa, all’infanzia, all’origine... A un qualcosa che non si riesce mai ad afferrare». E accanto a questi temi ne scorrono, pagina dopo pagina, altri strettamente legati: la morte, la donna, la solitudine. Le grandi figure dei suoi romanzi portano, non cicatrizzata, questa grande ferita e le trame sono sopralluoghi pensati per scandagliare l’animo umano. Spesso dentro la cornice ineliminabile della tragicità. «C’è una frase - riprende Lauretano - che dà in modo esplicito il senso di questo destino così pesante». Quasi uno scafandro che imprigiona l’uomo in corsa verso il proprio compimento. «La si trova ne Il diavolo sulle colline (storia di tre giovani studenti, dei loro vagabondaggi notturni e del loro incontro con Poli, un giovane ricco e debosciato; ndr): “Come - gridò Pieretto nel vento - non sai che quello che ti tocca una volta si ripete? Che come si è reagito una volta, si reagisce sempre?”». Ecco che l’uomo, l’uomo che come i protagonisti di quel libro si dibatte per bucare la noia che lo attanaglia, è chiuso in quel sacco con le sue aspirazioni. Naturalmente, la complessità di Pavese non può essere ridotta con schemi prefabbricati e talvolta gli stessi protagonisti riflettono il dibattito interiore e l’oscillare delle considerazioni. Quasi double-face: «Non si impara a bastar da soli - ci dice Clelia in Tra donne sole - se non si è fatta l’esperienza in due». Ma poche pagine dopo, sempre Clelia incupisce: «Non c’è che essere stati insieme di notte sullo stesso cuscino, per capire che ciascuno è fatto a modo suo e ha la sua strada». E ciascuno va, inesorabilmente, verso un finale aspro, drammatico, tragico.

Fine annunciata

Perché Rosetta si uccide? Clelia, a un certo punto di questo libro strepitoso che sfoglia i pettegolezzi, i sentimenti, le perfidie, le illusioni e le disillusioni di un gruppo di donne sullo sfondo del suicidio prima mancato e poi riuscito di Rosetta, ce lo spiega consegnandoci una verità amarissima: «Rosetta Mola era un’ingenua, ma lei le cose le aveva prese sul serio». Appunto, come Pavese. «In fondo era vero che s’era uccisa senza motivo (...). Voleva stare sola, voleva isolarsi dal baccano; e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo». Come farà Pavese il 27 agosto 1950, a soli 42 anni, con una morte che assomiglia molto a quella della ragazza. Tra donne sole è il romanzo della solitudine e della morte. Ma prima, è anche il romanzo del ritorno. Vocabolo speculare al destino. Clelia torna a Torino, non vede l’ora di rivedere il vicolo buio in cui è cresciuta. «Il grande tema - nota Mondo - solo apparentemente laterale, è il ritorno impossibile, il passato irrecuperabile, le cose che si ottengono quando non servono più. E Clelia si scontra con la Torino d’alto bordo - vecchia e nuova borghesia, nobiltà polverosa e riconvertita - che è costretta a frequentare per il suo lavoro». Insomma, il ritorno a Torino non porta da nessuna parte. Solo alla morte di Rosetta. Così come il viaggio a ritroso a Santo Stefano Belbo, il paese in cui era nato nel 1908, è un fallimento. «Pavese - insiste Lauretano - scava, scava, scava. Cerca quelle radici che potrebbero dargli un’identità, un’appartenenza, un senso. Ma anche qui la corsa affannosa verso il passato non colma il presente e le aspettative sul futuro. Quell’epigrafe all’inizio de La luna e i falò (storia di Anguilla e del suo ritorno dall’America, dove ha fatto fortuna, sulle colline delle Langhe in cui era cresciuto), “For C. Ripeness is all”, ovvero “Per C. Maturare è tutto”, non trova compimento». Resta quell’incipit memorabile: «C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco, o in Alba... Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione». E resta quel “raspare” ostinato alla ricerca di se stesso. Con Anguilla che esprime un punto di vista che è di tutti noi, come fosse un coro greco: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

«O Tu, abbi pietà. E poi?»

Alla terra, la terra che l’ha generato, Pavese chiede la soluzione di quell’enigma che è la vita. La domanda, che torna coniugata con tutte le parole chiave del suo vocabolario così esistenziale, rimane conficcata dentro di lui. «C’è in proposito un episodio illuminante - spiega Mondo -: Rosa Calzecchi Onesti, che sta lavorando alla traduzione dell’Iliade, legge Prima che il gallo canti, il dittico che contiene La casa in collina e il Carcere. E con intuito intravede ne La casa in collina un tormento religioso e gli augura di superarlo. Pavese le risponde così: “Quanto alla soluzione che mi augura di trovare, io credo che difficilmente andrò oltre il capitolo XV del Gallo. Comunque non si è sbagliata sentendo che qui è il punto infiammato, il locus di tutta la mia coscienza». In effetti in quel capitolo Corrado entra in chiesa. E definisce quell’istante uno «sgorgo di gioia». «Pregare, entrare in chiesa - dice Pavese - è vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue». «Sicuramente Pavese ha avuto in quel periodo, dopo l’8 settembre, una crisi religiosa», aggiunge Mondo. «Padre Giovanni Baravalle, il padre Felice de La casa in collina, racconta di averlo confessato e comunicato il 1° febbraio 1944». Lui, ne Il mestiere di vivere, annota: «Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto goder sempre questo sgorgo di divinità». Ma sappiamo anche che quella pace, conquistata in quella chiesa, andrà in pezzi. Pavese vince il premio Strega, diventa famoso, e si ritrova solo. Ancora più solo. Nell’estate del 1950, dopo l’ennesima delusione amorosa, dopo essersi illuso di poter costruire un legame con Constance Dowling (la “C.” della dedica), la situazione precipita. Chiude il diario, Il mestiere di vivere, con un’ultima rabbiosa invocazione. «Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?».

«Perdono tutti...»

Il 27 agosto 1950, domenica, si uccide a Torino con il sonnifero nella stanza 43 dell’Hotel Roma. Lascia un messaggio sobrio, majakovskiano: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? non fate troppi pettegolezzi». Sullo scrittoio c’è una copia dei Dialoghi con Leucò (dialoghi mitologico-filosofici). «In questo libro - è il pensiero di Mondo - affiora tutto il Pavese religioso, quello che non si stanca di indagare sul senso della vita. In uno dei vertici, il dialogo intitolato agli Dei, il divino viene proposto come un’esperienza, come un incontro che l’uomo moderno ha perduto, anche se “davanti al disagio, nell’ora incerta”, ne avverte la nostalgia». Dunque è giusto chiedersi perché proprio quel libro abbia accompagnato Pavese nell’ultimo viaggio. «Credo che quella scelta non sia stata casuale», risponde Mondo. «Pavese sentiva che quel testo racchiudeva il senso più profondo della sua esistenza e della sua arte. Chissà, forse quella notte, l’ultima della sua breve vita, ha trovato la forza di sfogliarlo, come viatico e breviario, testimonianza della sola verità che gli era stata concessa».

Tratto da Tracce N.8, Settembre 2008