una foto di Buzzati

Dino Buzzati

E Buzzati baciò la sua croce

da Avvenire di Giovedi 24 Gennaio 2002

ANNIVERSARIO «Vorrei essere come lei»: a trent'anni dalla morte dello scrittore, parla la religiosa che l'ha assistito

Suor Beniamina: «Aspettava le mie visite, gli piaceva che raccontassi la mia vita, diceva di vedere in me una serenità bellissima Nell'ultima intervista rimpianse di non avere la fede, però una sera mi chiese di ricordarlo nella preghiera»

Lucia Bellaspiga, inviata di Avvenire

BESANA BRIANZA (Mi). Il 28 gennaio di 30 anni fa Dino Buzzati andava al suo incontro con l'Evento, lo stesso cui aveva dedicato tante sue pagine: la Morte. E, come i suoi personaggi, volle arrivare all'appuntamento nel modo più dignitoso: quando decise che la malattia lo aveva reso irriconoscibile, negli ultimi 50 giorni che il cancro gli concesse si ritirò in una camera della clinica «La Madonnina», e da lì non uscì più. La morte per Buzzati è il momento del riscatto, dell'accesso al mistero. Una lotta suprema in cui ciascuno è solo. Solo, nonostante la presenza di Almerina, la sposa-bambina di 35 anni più giovane, portata all'altare 6 anni prima. E nonostante gli amici di tutta la vita, Indro Montanelli e Gaetano Afeltra, lì al suo fianco nel momento estremo.

Ma c'era un'altra presenza - discreta, giovane, minuta - che in quei 50 giorni accompagnò il grande uomo al suo Evento: suor Beniamina, divenuta col tempo una presenza indispensabile per Buzzati il laico, il non credente, il sempre in cerca di Dio.

«Me lo ricordo perfettamente - racconta suor Beniamina, che oggi, dopo 30 anni passati alla Madonnina, dedica tatto e dolcezza agli anziani in una casa di riposo della Brianza -. Un uomo meraviglioso, mite e soprattutto umile. Mai un accenno alla sua fama, al suo successo di giornalista e scrittore. Sapeva di avere un cancro e che stava per morire, ma mai che si sia lamentato o abbia preteso qualcosa. Il campanello era sul comodino, ma bisognava insistere perché lo usasse: la sua unica preoccupazione era non arrecare disturbo a nessuno, andarsene in punta di piedi».

Con il passare dei giorni tra voi si instaurò un rapporto particolare. La sua porta era chiusa quasi per tutti, ma la visita serale di suor Beniamina era attesa con ansia...

«Eppure non facevamo grandi discorsi, entrambi stavamo molto attenti a non entrare troppo nella sfera personale dell'altro. Io non ho mai osato impostare il discorso sulla fede: se ne parlava solo se era lui a volerlo. Più che altro io lo stupivo, lo incuriosivo: gli piaceva che gli raccontassi la mia vita di suora, quali fossero le regole tra consorelle, a che ora mi alzassi, quando andavo in chiesa... Allora sì che faceva tante domande, ma con delicatezza».

Almerina, la moglie, racconta che dopo questi colloqui Buzzati tornava sereno.

«Ogni sera, quando arrivavo, lei usciva dalla stanza per lasciarci soli. Allora Buzzati iniziava a parlarmi, a studiare quella "serenità bellissima" che diceva di vedere in me. Voleva capire da dove mi venisse, quasi carpirla. Io gli spiegavo che era la fede in Dio, la consapevolezza che la vita è un grande dono al termine del quale torniamo a Lui. Allora restava pensoso e concludeva: "Vorrei essere come lei". Una sera io tardai la mia visita e Buzzati me lo fece notare: "Credevo che non venisse più". Solo allora mi resi conto che mi aspettava e anche per me il nostro colloquio serale divenne un bisogno».

Arrivò mai a chiederle di pregare insieme? Incontrò quel Dio che agognava?

«Morì senza l'estrema unzione, ma anche perché la stessa Almerina si oppose. Però non passava giorno che non esprimesse un forte desiderio di Dio. Quando lo lasciavo, mi chiedeva dove stessi andando e io gli rispondevo che era l'ora di pregare in chiesa. Finché una sera ebbe il coraggio di chiedermi: "Si ricordi anche di me" e da allora me lo ripetè sempre... Un giorno semplicemente gli dissi: "Quando e se vorrà parlare con il cappellano, basta che me lo dica". Buzzati sorrise e ringraziò: "Quando mi sento, glielo dico io"».

Nei suoi racconti la morte è onnipresente, quasi in modo ossessivo: ne parlava mai?

«Mai. Sapeva che lo stava aspettando, ma non l'ha mai nominata con me. D'altra parte non si lamentava, non l'ho mai visto piangere o lasciarsi prendere dalla disperazione. Ricordo il giorno che il professor Malan lo portò in sala operatoria per un estremo tentativo, ma lo aprì e lo richiuse; dopo un'ora Buzzati era già di ritorno in camera: non c'era niente da fare. Chiese l'ora e poi scosse la testa: "Sono stato via troppo poco: sono spacciato". L'aveva sempre saputo, ma in quel preciso momento ebbe la certezza della fine».

Ricorda anche qualche episodio sereno?

«Le nostre conversazioni sulla montagna: anch'io, come lui, vengo dai monti e questo lo entusiasmava... E ricordo quando le giovani infermiere gli chiedevano un autografo: come gli piaceva, godeva proprio! Il giorno di Natale mi regalò un suo libro e volle scrivermi una dedica: era così soddisfatto... Poi mi torna in mente l'estrema dolcezza con cui guardava la sua giovane moglie, sempre lì con lui: quando la vedeva si illuminava. Almerina fino all'ultimo non perse mai la speranza, ma me la ricordo quando infine si rese conto che non c'era più nulla da fare, sul divano, disperata. Quella volta, di fronte a un dolore del genere, non trovai le parole».

Buzzati era sempre stato un cultore dell'ordine, della dignità, della morte «bella», affrontata con onore come un soldato, come Giovanni Drogo nel «Deserto dei Tartari». Riuscì a morire così?

«Aveva un senso della dignità che conservò fino all'ultimo respiro. Anche per questo non lasciava che nessuno entrasse e solo sua moglie poteva toccarlo. Ogni tanto si guardava allo specchio e, triste, mi diceva: "Come sono magro e sciupato. Non sono più io"; allora lo consolavo...».

Chi di voi due ascoltava l'altro? E chi parlava?

«Parlavamo tutti e due molto poco, era un dialogo intenso il nostro, ma spesso fatto di sguardi, di intese, di poche parole seguite da silenzi e lunghi pensieri. Bastava un accenno e già si creava un'atmosfera: ognuno dei due capiva che cosa l'altro intendesse dire».

Afeltra e Montanelli lo accompagnarono anche nel suo ultimo viaggio, quando Afeltra fece deviare il percorso del carro funebre per passare in via Solferino, davanti al «suo» Corriere della Sera. Li ricorda?

«Benissimo, erano sempre al suo fianco, si vedeva che tra loro c'era un affetto sincero. Qualche anno dopo Montanelli fu gambizzato e alla Madonnina dovetti prendermi cura anche di lui. Insieme parlavamo ancora di Buzzati, che lui definiva "il mio amico più caro". Anche a Montanelli promettevo le mie preghiere in chiesa, ma lui era tutt'altro tipo: "Grazie, ma ci pensa già mia madre", rispondeva e rideva».

Dopo 30 anni si sente ancora legata a Buzzati o è un ricordo lontano?

«Il 28 gennaio, alla stessa ora in cui morì, io sarò in chiesa e in quella messa lui verrà ricordato. Ma non passa giorno che non lo affidi alle mani di Dio».

Buzzati morì alle 4 e 20 del pomeriggio. La mattina aveva chiesto di farsi la barba. Poi, guardando Almerina: «Che strano - aveva detto -, oggi morirò eppure sento che se al Corriere mi chiedessero un articolo potrei scriverlo». La sera prima suor Beniamina era entrata «tutta gentile, perché sapeva che era la fine - ricorda oggi Almerina -. Io mi sono agitata, invece Dino è stato bravissimo, ha detto: "Si avvicini, venga pure suor Beniamina, tanto so perché è venuta. Ma l'unica cosa che io possa fare è baciare il suo Gesù". E, preso tra le mani il crocifisso che pendeva dal collo della suora, lo portò alle labbra».

Dio c’è, anche se non esiste.

recensione a un libro di Lucia Bellaspiga su Buzzati

Forse suona un po’ pirandelliana, ma è l’unica conclusione possibile alla lunga indagine di Lucia Bellaspiga su un non credente al di sopra di ogni sospetto: Dino Buzzati. Cento anni dopo la sua nascita e 34 dopo la sua morte, Buzzati rivela il suo rapporto con l’Aldilà, la fede, l’inspiegabile, insomma: il soprannaturale.

Una confessione postuma, ricostruita attraverso il delicato montaggio delle sue parole, opere, omissioni e contraddizioni: Dio che non esisti ti prego (edizioni Ancora, 2006) è il titolo e la sintesi di molti mesi di ricerche. L’inchiesta non trascura alcuna pista: i racconti, i diari, gli appunti inediti, i disegni, perfino gli spazi vuoti; e alcune testimonianze di quanti accompagnarono, per un breve tratto o per buona parte della sua vita, l’autore del Deserto dei Tartari , il cronista simbolo di via Solferino: la moglie, il compagno di scalate, i colleghi. Anche due di loro, nel frattempo, sono scomparsi: Indro Montanelli e Gaetano Afeltra. Fedeli a un’antica e complice discrezione, magari non hanno detto tutto. Ma sicuramente quanto basta.

Per essere un uomo senza il dono della fede, come si accreditò fino alla fine, rifiutando l’estrema unzione, Buzzati non è stato bravo nel nascondere le tracce e cancellare le prove dei suoi dubbi trascendentali, dei suoi cedimenti al fascino di una giustizia universale, di un amore extraterreno, di un’infinita «boutique dei misteri» che intuiva sopra le sue Dolomiti, dietro le stelle, nell’ultima espressione del viso di sua madre sul letto di morte, nell’ombra di un arabo che scompare nel suk con la sua palandrana bianca.

Lucia Bellaspiga, ora giornalista di «Avvenire», era una bambina quel 28 gennaio del 1972, quando anche Buzzati varcò la «frontiera» e scoprì, forse, se avesse avuto ragione a non credere o, piuttosto, a non escludere. Il tenace inseguimento inizia dieci anni più tardi, quando lei scrive una lettera al «Giornale Nuovo» di Montanelli, esprimendo la sua devozione adolescenziale per il grande scrittore bellunese.

Tanta passione colpisce la vedova, Almerina Buzzati, che apre alla ragazza la porta di casa, poi i cassetti, gli album, le agende e dunque i confini tra il mito e l’uomo.

A molti sarebbe bastato. Sarebbe bastato toccare i fogli su cui aveva passeggiato il suo pugno, sentire il fiato umido e vero del vecchio Diabolik, il cane raffigurato nel suo ultimo quadro. Sarebbe bastato conoscere, quasi in esclusiva, l’incertezza su un aggettivo, svelata dalle correzioni sui manoscritti. Sarebbe bastata la commozione per quella grafia resa quasi infantile dal cancro che stava per ucciderlo. Ma si poteva apprendere di più di «quello che i libri non dicono» dell’autore prediletto. Si poteva scoprire in che cosa crede un non credente come Buzzati. Che non era un ateo, precisa Vittorino Andreoli nella prefazione. Ma un cronista dell’insondabile. A differenza di un «senza-Dio», Buzzati non chiude gli occhi di fronte ai segni, ai messaggi e, soprattutto, ai messaggeri dell’Altrove. Anzi, li cerca e sa dove trovarli: tra le creature semplici. Dove, sbadatamente, nessuno guarda. O tra gli esseri repellenti, che nessuno vuole guardare. Come il Colombre, il «mostruoso pesce dal muso di bufalo», temuto come un predatore e inascoltato come un profeta. I messaggeri «sanno», sanno che cosa c’è oltre l’ultima porta, come «il cane che ha visto Dio», nel paesino di Tis. Ma non riescono mai a comunicare il loro segreto, perché ci si accorge di loro sempre troppo tardi, quando hanno svoltato l’angolo e sono scomparsi.

Se Buzzati è diventato uno di loro, invisibile e immateriale, ha dato più di un’occasione all’implacabile biografa della sua anima: per esempio, quando Lucia Bellaspiga ritrova uno schizzo a matita che ritrae, di spalle, «la Madre scrivente», datato 7 settembre 1941.

L’abbozzo le ricorda una scena identica, descritta da Buzzati nell’agenda del 1971, dieci anni dopo la morte della madre. Segue la direzione indicata dal disegno, approfondisce e scopre, con l’aiuto di Almerina, che quello era davvero il «fermo immagine» di un ricordo rimasto per 30 anni nascosto nel cuore dello scrittore.

E restituito dal passato remoto di un cassetto altri 35 anni dopo. Proprio a lei. Un caso, una coincidenza, un messaggio.Come vi pare.

Il dopodopodomani di Buzzati

Il 28 gennaio di 50 anni fa moriva lo scrittore bellunese. Nelle sue opere la concretezza semplice si unisce a un acuto sentimento del mistero. E c’è uno spiraglio, anche nelle situazioni più buie. «Senza la grazia, io non faccio niente»

di Andrea Fazioli

È la vigilia di Natale del 1920. Alla fine di una lunga lettera, il quattordicenne Dino Buzzati augura buon Natale al suo amico Arturo Brambilla. Poi aggiunge: «Non ti faccio gli auguri di Capo d’Anno perché ti scriverò domani, dopodomani, dopodopodomani, dopodopodopodomani, dopodopodopodopodomani ecc… ecc… e allora avrò il tempo di farteli». È solo il saluto spiritoso di un adolescente, ma quella serie di “dopo” evoca in me una sensazione che non saprei come definire, se non con l’aggettivo buzzatiana. La tensione verso qualcosa che sta oltre, la fiducia nelle parole che verranno pronunciate (fiducia che persisterà anche nelle visioni più oscure), l’amicizia, l’attesa, la fedeltà… sono tutti temi fondamentali nell’opera dello scrittore nato a a Belluno nel 1906 e morto a Milano cinquant’anni fa, il 28 gennaio del 1972.

Buzzati e Brambilla si conoscono a scuola nel 1916, quando entrambi hanno dieci anni. Nei decenni successivi Buzzati indirizzerà più di trecento lettere all’amico: un corpus epistolare in cui piano piano si rivelano i tratti salienti della sua scrittura. È uno dei pochi autori italiani del XX secolo a cui si può attribuire un aggettivo: buzzatiano, appunto. Le sue narrazioni hanno un tocco inconfondibile, un’originalità che consiste nel miscuglio fra evocazione fantastica, senso dell’avventura e indagine esistenziale. Il tutto con uno stile insieme sobrio e poetico.

Per più di quarant’anni Buzzati lavorò al Corriere della Sera, prima come praticante redattore, poi come cronista, elzevirista, giornalista a tutto campo. Era anche poeta, drammaturgo, pittore e disegnatore. Nel 1969 il suo Poema a fumetti, che rivisita in chiave onirica il mito di Orfeo ed Euridice, anticipò di decenni l’evoluzione del fumetto contemporaneo (la cosiddetta graphic novel). Alcuni suoi racconti brevi (“Il colombre”, “I sette messaggeri”, “La goccia” e tanti altri) sono ormai dei classici, letti e riletti nelle scuole, così come i suoi romanzi: da Bàrnabo delle montagne (1933) fino a Un amore (1963), passando per Il deserto dei Tartari (1940), che è considerato il suo capolavoro.

Che cosa dire di Buzzati, in poche righe? La sua opera è ampia e magnifica come le cime delle Dolomiti, sulle quali amava arrampicarsi. «Ci vorrà naturalmente una guida che conduce ai posti da salutare». Così annotava l’autore sulla sua agenda, pochi mesi prima di morire per un tumore al pancreas. Poi aggiungeva: «Oppure, più semplice, le cose stesse si mettono a parlare». Questa è per me la caratteristica principale dei racconti di Buzzati: la concretezza, la semplicita delle cose di ogni giorno si unisce a un acuto sentimento del mistero. Come ebbe a dire lui stesso in un’intervista: «Senza un intervento estraneo, che non dipende da noi, senza la grazia, dico bene la grazia, non si fa niente. Io, particolarmente, non faccio niente».

Che valore attribuire alla parola «grazia» come la intende Buzzati? Non era credente, spesso anzi manifestava nei suoi racconti un certo pessimismo, uno sgomento di fronte alla morte. Ma anche nelle situazioni più buie, appare un «dopodopodopodomani», uno spiraglio di futuro. Il bellissimo finale de Il deserto dei tartari ne è un esempio: non voglio svelarlo, mi limito a dire che si tratta di un sorriso, un piccolo sorriso che appare quando tutto sembra inutile e perduto. «Non esiste una pagina di Buzzati che sotto sotto non rimandi ad un significato altro. C’è sempre sottinteso, ammiccante, a volte sornione, a volte surreale, a volte sarcastico, a volte commosso, non importa, ma c’è sempre il rimando a un significato misterioso che è diverso da quello che apparentemente vuole essere». Così diceva Lucia Bellaspiga, studiosa ed esperta di Buzzati, in un intervento di qualche anno fa al Centro Culturale di Milano.

Forse è stato proprio questo “oltre” ad affascinarmi, quando da ragazzo lessi per la prima volta Buzzati. In particolare mi capitò fra le mani il suo ultimo libro, I miracoli di Val Morel (1971). Si trattava di una vecchissima edizione, ma il volume è stato ristampato di recente da Mondadori. Buzzati dipinse una serie di quadri che s’ispiravano ai tradizionali ex-voto, nei quali le persone esprimono il loro ringraziamento per una grazia ricevuta. L’autore affronta il tema con ironia, in maniera surreale, dipingendo e narrando una serie di miracoli “impossibili” di santa Rita. In particolare mi colpì la «breve invasione di formiche mentali» avvenuta «a Longarone e in Valle di Zoldo, nell’anno 1871». L’autore immagina un certo tipo di pensiero ossessivo come una formica che s’installa nelle «circonvoluzioni mentali». Questi animaletti suscitano dubbi angosciosi del genere: «Lo sai che non esisti? O se esisti, esisti male?». La vertigine della domanda mi commosse da adolescente e mi commuove ancora. Ecco un autore che, a partire dal tema degli ex-voto, con la loro schiettezza, con il loro candore, va diritto al punto. Ma io esisto veramente? Che cosa significa essere al mondo?

Il piccolo volume, che Buzzati fece in tempo a vedere stampato poche settimane prima di morire, enumera una serie di mostri pittoreschi: i Gatti Vulcanici, i Vespilloni, il Serpenton dei Mari, il Gatto Mammone, il Diavolo Porcospino. Ma c’è anche il Colombre, protagonista del celebre racconto omonimo. Lo dobbiamo chiamare «mostro», spiega Buzzati, «perché meraviglioso, non già perché apportatore di sventure». Da quel momento, leggendo i racconti e gli articoli di Buzzati, capii che il «meraviglioso» ha in sé una forza positiva, insita nella sua capacità di suscitare domande, di smuovere il tran tran di una vita senza sorprese. Ecco dunque che il Colombre finalmente si rivela come una creatura benefica. Possibile? Non sembra vero, ma il mostruoso Colombre è una creatura buona.

Oltre alla concretezza, al mistero, al meraviglioso, anche l’amore e la bontà sono al centro dell’opera di Buzzati. Talvolta solo come nostalgia, talvolta invece come riconoscimento di una «grazia» inesplicabile, nascosta nella promessa di un «dopodomani» al quale l’autore si mantiene fedele. Così scrisse Buzzati il 6 giugno del 1963, in un articolo in memoria di papa Giovanni XXIII: «Anche i cuori apparentemente di pietra o di gesso a un certo momento possono capire, per lo meno intravedere, come la bontà sia, a questo mondo, la cosa che vale di più». Affiora qua e là nei racconti di Buzzati questa «bontà», questa parolina che ogni tanto ci sembra fin troppo semplice e ingenua, ma che in realtà è vasta quanto l’universo.

Tratto dal sito di CL (gennaio 2022).