ritratto di Charles Péguy

Péguy sulla soglia

«Péguy è indivisibile, e sta perciò dentro e fuori la Chiesa, è la Chiesa in partibus infidelium, dunque là dove essa deve essere. Egli lo è grazie al suo radicamento nel profondo, dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano e si penetrano fino a rendersi indistinguibili». Così von Balthasar. Appunti sul libro Péguy au porche de l’Église recentemente uscito in Francia per Les Éditions du Cerf.

«Io sono un peccatore. Non sono un santo. I santi si riconoscono immediatamente. Sono un buon peccatore. Un testimone. Un peccatore che frequenta la messa domenicale in parrocchia, un peccatore coi tesori della grazia divina». Così diceva di sé Charles Péguy. Sapeva bene che «nessuno è competente quanto il peccatore in materia di cristianità. Nessuno eccetto il santo. In generale, anzi, si tratta della stessa persona. Il peccatore e il santo sono due elementi per così dire integranti, ossia due parti integranti del meccanismo della cristianità. Insieme, sono indispensabili l’uno all’altro».

Invece «i farisei vogliono che gli altri siano perfetti. Ed esigono e reclamano. E non parlano che di questo». Tra loro c’è anche la schiera dei chierici, ecclesiastici e intellettuali cattolici ufficiali, che da una parte preferiscono tapparsi gli occhi, negare l’evidenza, nascondersi la vera natura e le dimensioni della catastrofe del cristianesimo nella modernità. Ma dall’altra, preoccupati, perché inappagati, della moralità altrui, non cessano di rovesciare condanne sul mondo moderno. «Lamentarsi e inveire è il loro forte. Essi brontolano, mugugnano, rimbrottano. Sono di cattivo umore e, quel che è peggio, nutrono rancore».

Péguy soffrì tutta la vita da parte di quello che chiamava «il partito dei devoti». E come spesso accade, i più zelanti nel procurargli sofferenze furono alcuni amici che agivano per "salvare l’anima" al poeta di Orléans. Péguy era sposato con una donna atea, e i suoi figli non erano battezzati. Quindi non poteva avvicinarsi ai sacramenti.

Dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano

In Francia è uscito da poco per le Éditions du Cerf un libro che ricostruisce con documenti inediti la cronaca di questa guerra che il poeta dovette combattere per sottrarsi ai suoi aspiranti "maestri spirituali" che prendevano spunto dalla sua difficile e dolorosa situazione familiare per giudicarne il cuore. Il bel titolo, Péguy au porche de l’Église (Péguy sul portico della Chiesa) suggerisce quale era la vera radice dello scandalo che mandava in bestia gli intellettuali cattolici: non tanto la (da loro) presunta incoerenza morale di Péguy, quanto il suo essere uomo di frontiera, che rimane sulla soglia della Chiesa, che è anche il luogo nativo, quello in cui il non cristiano, per grazia diventa cristiano. Cioè il luogo in cui il non cristiano, per grazia si accorge stupito che il cristianesimo corrisponde inaspettatamente al suo cuore. Questo vertiginoso rimanere su questa perenne soglia («dunque là dove la Chiesa deve essere» come scriverà von Balthasar), gli intellettuali e i militanti cattolici anche allora non potevano sopportarlo. Di loro scriveva Péguy: «Non sono cristiani, voglio dire che non lo sono fin nel midollo. Perdono continuamente di vista quella precarietà che è per il cristiano la condizione più profonda dell’uomo; perdono di vista quella profonda miseria; e non tengono presente che bisogna sempre ricominciare». E ancora: «È una precarietà eterna. Niente di acquisito è acquisito per sempre. Ed è la condizione stessa dell’uomo. Ed è la condizione più profonda del cristiano. L’idea di una acquisizione eterna, l’idea di una acquisizione definitiva e che non sarà più contestata è ciò che c’è di più contrario al pensiero cristiano».

Scrive von Balthasar: «Péguy è indivisibile, e sta perciò dentro e fuori la Chiesa, è la Chiesa in partibus infidelium, dunque là dove essa deve essere. Egli lo è grazie al suo radicamento nel profondo, dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano e si penetrano fino a rendersi indistinguibili. Forse, dopo la lunga storia delle variazioni platoniche nella storia cristiana dello spirito, la Chiesa non si è mai insediata in modo altrettanto preciso nel mondo, dove però l’idea di mondo rimane libera da ogni sfumatura di acritico entusiasmo, da ogni mitologia ed erotologia, come pure da ogni ottimistica fede nel progresso. Semplicità biblica e castità speculativa forniscono a Péguy un’incorruttibile chiarezza di sguardo per il mondo come esso realmente è, grandeur et misère».

«Una religione distinta per persone notoriamente distinte»

A diciassette anni Péguy non era cristiano. Scrive in quel periodo: «Tutti i miei compagni si sono sbarazzati come me del loro cattolicesimo [...]. I tredici o quattordici secoli di cristianesimo impiantato tra i miei avi, gli undici o dodici anni di insegnamento e talvolta di educazione cattolica sinceramente e fedelmente ricevuta sono passati su di me senza lasciar traccia». Sono gli anni in cui il suo entusiasmo di adolescente sensibile viene intercettato dai miti della fede repubblicana, rivoluzionaria, per poi approdare a un socialismo mistico che relega la Chiesa, insieme con la monarchia, nell’ambito decrepito dell’Ancien Régime, un orpello strumentale di oppressione della borghesia capitalista. È in questa temperie umana e sociale che Péguy, giovane universitario, sposa con rito civile la diciottenne Charlotte Baudouin, sorella dello scomparso Marcel, un amico e un compagno di fede socialista che Péguy venerava. L’intesa affettiva tra i due giovani sposi si fonde all’inizio con la comune militanza al servizio della comune fede laica e atea.

Da questa terra incristiana, che considera il cristianesimo come un passato che non lo riguarda, proviene Péguy quando dieci anni dopo diventa cristiano. Un cristianesimo incontrato a partire dal presente. Quando più tardi descriverà la tragedia moderna, quella di un mondo totalmente incristiano («la rinuncia di tutto il mondo a tutto il cristianesimo») parlerà con cognizione di causa, visto che da quel mondo proviene anche lui, anche lui è stato uno dei «primi uomini senza Cristo», lontani e diversi dai miscredenti e dai peccatori delle epoche cristiane.

Per Péguy la fede cristiana è stata un nuovo inizio di grazia, una gemma miracolosamente sbocciata nel deserto della propria vita, affaticata dentro i mille impegni legati alla sua rivista, i Cahiers de la quinzaine, fondata nel 1900. Ma, proprio perché nuovo inizio di grazia, non viene mai percepita come un’abiura della propria vita trascorsa in partibus infidelium, un ritorno all’ovile cattolico da parte del militante socialista che sublima in religione i suoi fallimenti politici: «È per un approfondimento del nostro cuore sul medesimo cammino, e non è affatto per un’evoluzione, né per un ripensamento, che abbiamo trovato la strada del cristianesimo. Non l’abbiamo trovata grazie ad un ritorno. Piuttosto l’abbiamo rinvenuta al termine. Ed è per questo, occorre che lo si sappia bene dall’una e dall’altra parte, che non rinnegheremo mai un solo atomo del nostro passato». Péguy porta con sé nella sua nuova esperienza cristiana la sua passione per una liberazione temporale degli uomini. Si sottrae con forza all’abbraccio della destra clericale che tenta di "recuperarlo". Non ha niente a che fare coi restauratori che propongono come via d’uscita al disastro moderno un ritorno a un utopico regime di cristianità. Nel pamphlet Notre jeunesse (1910) riconosce con realismo la condizione della Chiesa nel mondo moderno: «Non bisogna nascondersi» scrive «che se la Chiesa ha cessato di costituire la religione ufficiale dello Stato, non ha però cessato di costituire la religione ufficiale della borghesia dello Stato». E di nuovo: «Il cristianesimo, al contrario, socialmente, non è più che una religione da borghesi, una religione da ricchi, una specie di religione superiore per classi superiori della società, della nazione, una specie di miseranda religione distinta per persone notoriamente distinte; di conseguenza, quanto c’è di più superficiale, in un certo senso di più ufficiale, di meno profondo, di più inesistente; quanto c’è di più squallidamente, di più miseramente formale; e d’altro canto, soprattutto, quanto c’è di più contrario alla sua istituzione, alla santità, alla povertà, anche all’aspetto più formale della sua istituzione».

Ma la nuova realtà vissuta da Péguy non viene accettata dalla moglie e dalla famiglia di lei, che riducono il caso a una mera questione di "crisi" religiosa. La signora Péguy si irrigidisce in un attaccamento alla tradizione comunarda e repubblicana del suo clan familiare, continuando ad adorare quei miti del passato che il marito sembra aver consumato. La cosa per Péguy è tanto più dolorosa, perché viene trattato dai suoi come un rinnegato, senza esserlo: «Ma come farlo comprendere alle persone amate, in un clima politico e sociale nel quale chi dice cattolico dice clericale e chi parla di Gesù Cristo fa immediatamente pensare all’Ordine Morale di Mac Mahon?» (Jean Bastaire, Péguy, il noncristiano, Milano, Jaca Book, 1991). Péguy sa, senza neanche chiederlo, che la moglie rifiuterebbe ogni proposta di sposarsi in chiesa e di far battezzare i tre figli nati dal matrimonio. Questa sua condizione fonda strutturalmente il suo statuto di cristiano perennemente "sulla soglia": pur cattolico, non può "entrare in Chiesa", cioè non può accostarsi ai sacramenti. Finché anche lui era non credente, la sua situazione irregolare non poteva essergli imputata. Ora che confessa la sua fede, il suo matrimonio civile diventa un concubinaggio interdetto dalla Chiesa. E il mancato battesimo ai figli una omissione gravissima dei suoi doveri di genitore cristiano.

In questa situazione lacerante, che lo accompagnerà per tutta la vita, Péguy cerca il conforto di alcuni amici cattolici.

Il partito dei devoti

A raccogliere le confidenze di Péguy è un giovane intellettuale di belle speranze, già collaboratore dei Cahiers, da poco convertito alla fede cattolica, Jacques Maritain, sposato a una giovane ebrea di origine russa anch’essa da poco convertita, Raïssa. Nel maggio 1907 Péguy lo rende partecipe della sua sofferenza e lo invita a prendere i contatti, in qualità di "ambasciatore spirituale", con un suo vecchio amico di Orléans, Louis Baillet, che dopo essersi fatto monaco benedettino si era rifugiato insieme alla comunità di Solesmes nell’isola di Whight per fuggire alle restrizioni della legge repubblicana sulle associazioni religiose. Dai due amici, incaricati di studiare il suo "caso", Péguy si attende confusamente non si sa quale conforto, e invece gli viene presentato un conto da pagare, la fredda lista di obblighi da adempiere se vuole veramente «rientrare nella Chiesa». Il recente volume Péguy au porche de l’Église raccoglie la corrispondenza inedita intercorsa negli anni a seguire tra Baillet e Maritain sul caso Péguy. Riproponendo anche brani noti del diario di Maritain, il libro è la cronaca della sofferenza a cui i due amici (e altri insieme a loro, come l’altro benedettino Clerissac) sottoposero il direttore dei Cahiers affinché mettesse ordine nella sua vita.

Una lettera di Baillet a Maritain del luglio 1908 porta ad esempio di paragone la vicenda di un sacerdote protestante che per farsi cattolico ha dovuto rinunciare alla moglie e ai figli ed espone in sintesi qual è per i due amici l’unica soluzione del "caso Péguy": «Restare nella situazione presente è impossibile: la legge divina è formale: niente può impedire al nostro amico di riconciliarsi con la Chiesa [...]. Il suo primo dovere non è di andare a messa, ma di regolarizzare la sua unione: lui lo deve fare il più presto possibile, e quali che siano le conseguenze [...] deve dichiarare alla sua donna la sua risoluzione di rientrare nella Chiesa, per conseguenza di sposarla in Chiesa, e per ciò di farla battezzare, dopo aver ricevuto l’istruzione richiesta dalla Chiesa. Se lei accetta, ciò sarà una testimonianza d’amore assai chiara per permettere a lui di riappacificarsi con lei […]. Se lei rifiuta, lui sarà libero e allora sarà tempo di regolare i dettagli della situazione. [...] È un sacrificio estremo che gli è richiesto: che lo compia senza stare a guardare le conseguenze possibili del suo atto».

Anche i coniugi Maritain fin dall’inizio fanno un duro pressing nei confronti del loro amico. Già nel settembre 1907, di ritorno dal primo incontro con Baillet, Maritain scrive a Péguy: «Dio ha donato agli uomini, a tutti gli uomini, i suoi dieci comandamenti. [...] Attraverso questi comandamenti il buon Dio parla a ciascuno di noi. Da ciò che Lui ha comandato per tutti nessuno è esentato [...]. Quando il padrone ha fatto un regolamento per tutta la casa, i servitori non vanno a domandargli degli ordini personalizzati. Non si può avere alcuna vocazione particolare che preceda la vocazione universale. Credere che Dio domandi, nell’interesse della sua gloria, di rimandare l’esecuzione dei suoi comandamenti anche di un sol giorno è sicuramente un’illusione [...]. Perché rientrare nella Chiesa significa fare ciò che Dio domanda, ciò che comanda assolutamente e in primo luogo, obbedire ai suoi comandamenti [...]. Rientrare nella Chiesa, ricevere la vita e il nutrimento della grazia come un figlio fedele e non prodigo, non può essere mai in alcuna maniera un’opera che ha bisogno di maturare nel tempo, ma è un dovere, che è già tutto maturo dal momento che viene visto».

Soltanto il sensibile lo tocca

Da allora in poi, per il poco tempo che rimane da vivere a Péguy (sarà ucciso in guerra il 5 settembre 1914, durante la battaglia della Marna), gli amici zelanti infittiscono i diktat, elaborano strategie e agguati, moltiplicano i rimproveri perché si arrenda e paghi il suo riscatto di "ostaggio" del cristianesimo. Péguy per Maritain è «un imbecille», uno che «scialacqua la grazia», che si illude «che la salvezza sia facile», «si accontenta con delle cose non essenziali, come di aver fatto rispettare i pranzi di magro alla famiglia durante la settimana santa, e di fare cantare delle nenie cristiane ai suoi bimbi». Se Péguy confida di voler andare pellegrino a Chartres per chiedere la grazia per un amico malato, Maritain lo diffida spiegandogli che «è impossibile fare il voto di un pellegrinaggio senza promettere allo stesso tempo di comunicarsi». Si giunge ad augurarsi che le tribolazioni familiari e professionali pieghino Péguy, lo costringano a diventare «un membro sano» della Chiesa, accettando la legge che la conversione «comporta un certo perderci». Soprattutto, non sopportano le motivazioni che Péguy oppone: «La sua risposta è che egli non vuole abbandonare sua moglie, vuole che lei sia battezzata ed entri nella Chiesa, e che per questo lui non deve adottare mezzi violenti». Anche il giro dei Cahiers, fatto di «ebrei e universitari» incristiani, viene considerato un intralcio, un motivo di perdizione con cui sarebbe meglio rompere il legame. Si fa dell’ironia sulla umile speranza serbata in cuore da Péguy che il suo permanere fisicamente nella terra incristiana da cui proviene possa contagiare anche altri alla fede: «Lui considera la sua opera letteraria così importante da fargli ritardare ancora di qualche tempo l’esecuzione dei comandamenti della Chiesa». Maritain arriva ad affrontare direttamente la signora Péguy per strapparle il consenso al battesimo dei figli, provocando solo un più profondo irrigidimento.

Quando viene pubblicato il Mistero della carità di Giovanna d’Arco, Maritain, in una lettera a Péguy, scrive che si tratta di un’opera «piena d’irriverenza», che «rende la fede la più mediocre possibile», in cui «si osa parlare bassamente della Vergine Maria». Concludendo che «essa prova semplicemente che voi avete molta strada da fare per essere un cristiano fedele». È a questo punto che viene fuori la vera radice dell’incomprensione. Le ultime lettere di Maritain a Baillet e ad altri preti accusano Péguy di non volersi sottomettere al «giogo intellettuale» che la conversione al cristianesimo implica. «Io m’accorgo che il suo disprezzo delle "formule intellettuali" può ben nascondere il disprezzo per l’obbedienza intellettuale, ossia il disprezzo della Verità […]. Péguy ha orrore del giogo intellettuale della fede, senza il quale non vi è vera fede». E ancora, in un’altra lettera a Baillet, del giugno 1910: «Vi ho già detto che la verità teologica non gli interessa […]. Lui crede che la fede del carbonaio sia una fede più grande di quella di san Tommaso; crede che la parola divina non sia altro che delle parole: soltanto il sensibile lo tocca».

«Sono preghiere di riserva»

Così viene a galla, ben oltre le sue vicende familiari, il giudizio sull’esperienza cristiana di Péguy. Per i moderni il cristianesimo è un’appartenenza a verità eterne, magari riscoperte con l’entusiasmo dei neofiti, che si identifica con una lista di conseguenze morali, di doveri da adempiere a costo anche di eroici sacrifici. Si tratta in fondo di adeguare la vita pratica a una teoria vera. A Péguy è accaduto diversamente. Lui che viene dalla terra totalmente incristiana, dalla perdizione moderna, sa bene che tutta la verità cristiana non basta a fare germogliare la più piccola speranza. Come la sua Giovanna d’Arco, Péguy sa bene che venti secoli di fede, di carità, di santità, di teologia non servono a rendere felice il cuore dell’uomo qui e ora, se non accade una cosa nuova, l’incontro con un segno vivente, carnale, visibile e tangibile della stessa Presenza. Come duemila anni fa. Un’umanità nuova che è quella in cui Cristo risponde al cuore, per cui l’uomo è fatto. «Soltanto il sensibile lo tocca», scrive disgustato Maritain. E Péguy risponde: «L’azione della grazia, ecco ciò che bisogna rispondere agli imbecilli che domandano la ragionevolezza della fede». Questo nuovo inizio di grazia, questa grazia nuova («Una grazia totale. Una grazia nuova. E se posso dire una grazia giovanile. Perché l’eternità stessa è nel temporale. E ci sono grazie nuove e grazie che sarebbero come invecchiate») per sua natura non si può pretendere, si può solo attendere. E domandare. Tanto meno si può imporre agli altri, alla moglie atea, agli amici e ai lettori incristiani dei Cahiers de la quinzaine. Una simile pretesa farebbe solo aumentare il sospetto che segna tutta la modernità, per cui il cristianesimo è solo un «giogo intellettuale» che affatica e logora la vita.

Péguy si astiene dal fare pressioni e imposizioni agli altri. Attende con pazienza dolorosa che, come è avvenuto per lui, la grazia tocchi i cuori. Rimane così sulla soglia e attende che un Altro operi, portando anche i suoi come ha fatto con lui sulla stessa soglia, sullo stesso permanente inizio. Rispetta i tempi e le circostanze in cui il miracolo tanto desiderato potrà avvenire. E recita da povero peccatore le preghiere cristiane: «Sono preghiere di riserva. Non ce n’è una in tutta la liturgia che il misero peccatore non possa dire veramente. Nel meccanismo della salvezza, l’Ave Maria è l’estremo soccorso. Con questo non ci si può perdere».

Gli intellettuali non capiscono, scambiano tutto questo per un lassismo, per un attendismo scettico. La loro attitudine Péguy la denuncia nelle pagine di Véronique. Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle: «Il proprio di questi interventi è di ostacolare sempre l’operazione della grazia; di prenderla sempre in contropiede, con una sorta di pazienza formidabile. Essi calpestano i giardini della grazia con una brutalità spaventosa. Si direbbe che si propongono unicamente di sabotare i giardini eterni. Così i curati lavorano alla demolizione del poco che resta. E soprattutto quando Dio, attraverso il ministero della grazia, lavora le anime, loro non mancano mai di credere, questi buoni curati, che Dio non pensa che a loro, che non lavora che per loro […]».

Dalla grazia, l’audacia

Alla vigilia della sua morte, di stanza con gli altri soldati vicino agli Eremitani, nei pressi di Vermans, Péguy passa tutta la notte a raccogliere fiori intorno ai piedi di una statua della Madonna, scampata alle distruzioni dei giacobini e da allora rimasta in un granaio trasformato in cappella. Sarà stata l’ultima occasione per affidare alla Madonna i suoi cari. La sua supplica, espressa in doloroso silenzio per tutti gli ultimi anni, verrà esaudita: dopo la sua morte, tra il ’25 e il ’26, la signora Péguy e tre dei suoi quattro figli (l’ultimo nacque dopo la morte del padre) riceveranno il battesimo nella Chiesa cattolica. Il primogenito in una comunità protestante.

Si compiva dunque la grazia che tante volte Péguy avrà chiesto a Maria, affidandole nel silenzio del proprio cuore i suoi bambini, come descrive nel Portico del mistero della seconda virtù: «Bisogna dire che era stato davvero ardito e che era un’azione audace. Eppure ogni cristiano può fare altrettanto. Anzi, ci si chiede perché non lo faccia. Come si prendono tre bambini per terra e li si mettono tutti e tre. Insieme. Nello stesso tempo. Per divertimento. Per gioco. Nelle braccia della loro madre e della loro balia che ride. E protesta. Perché se ne mettono troppi. E non avrà la forza di portarli. Lui, audace come un uomo. Aveva preso, con la preghiera aveva preso. I suoi tre bambini nella malattia, nella miseria in cui versavano. E tranquillamente ve li aveva messi. Con la preghiera ve li aveva messi. Molto tranquillamente nelle braccia di colei che si è fatta carico di tutti i dolori del mondo. Le cui braccia sono già così cariche. Perché il Figlio ha preso tutti i peccati. Ma la Madre ha preso tutti i dolori».

«Nessuno è competente quanto il peccatore in materia di cristianità. Nessuno eccetto il santo. In generale, anzi, si tratta della stessa persona»

Péguy rimane sulla soglia della Chiesa, che è anche il luogo nativo, quello in cui il non cristiano, per grazia diventa cristiano. Cioè il luogo in cui il non cristiano, per grazia si accorge stupito che il cristianesimo corrisponde inaspettatamente al suo cuore

«Forse, dopo la lunga storia delle variazioni platoniche nella storia cristiana dello spirito, la Chiesa non si è mai insediata in modo altrettanto preciso nel mondo. Semplicità biblica e castità speculativa forniscono a Péguy un’incorruttibile chiarezza di sguardo per il mondo come esso realmente è, grandeur et misère»

(von Balthasar)

Questo vertiginoso rimanere su questa perenne soglia («Dunque là dove la Chiesa deve essere» come scriverà von Balthasar), gli intellettuali e i militanti cattolici anche allora non potevano sopportarlo

«Io m’accorgo che il suo disprezzo delle "formule intellettuali" può ben nascondere il disprezzo per l’obbedienza intellettuale, ossia il disprezzo della Verità»

(Maritain)

«Vi ho già detto che la verità teologica non gli interessa.

Lui crede che la fede del carbonaio sia una fede più grande di quella di san Tommaso; crede che la parola divina non sia altro che delle parole: soltanto il sensibile lo tocca»

(Maritain)

Scrive Péguy sul partito dei devoti: «Il proprio di questi interventi è di ostacolare sempre l’operazione della grazia. Essi calpestano i giardini della grazia con una brutalità spaventosa. Così i curati lavorano alla demolizione del poco che resta»