In occasione della nuova edizione italiana de L’Annuncio a Maria per i tipi della Rizzoli, nella collana “i libri dello spirito cristiano”, l’intervista al terzogenito del grande scrittore francese. Padre di famiglia, diplomatico e autore di prosa
A cura di Silvio Guerra
Abbiamo incontrato Henri Claudel, il terzo dei cinque figli di Paul Claudel, nella
sua casa vicino a Saint Sulpice. L’occasione è stata l’uscita in Italia di una nuova
edizione de L’Annuncio a Maria nella collana Rizzoli “i libri dello spirito
cristiano” diretta da don Giussani. Colpisce nell’ottantanovenne Henri lo sguardo
attento a cogliere in profondità ciò che incontra, che si illumina quando gli
raccontiamo della diffusione nel mondo - ad opera del movimento - delle opere di suo
padre, legata soprattutto alla valorizzazione che da sempre ne fa don Giussani.
A Claudel figlio abbiamo rivolto alcune domande su L’Annuncio e sulla
personalità di suo padre.
Cominciando a parlare dell’opera teatrale, Henri Claudel precisa: «Sono
particolarmente legato a L’Annuncio a Maria perché ha la stessa mia età.
Infatti, sono nato a pochi giorni di distanza dalla prima rappresentazione (dicembre
1912; ndr). Oggi non è più rappresentato come qualche decennio fa. Interessa
di meno le giovani generazioni. Mentre sono riscoperte molte altre opere di Paul
Claudel oltre al La crisi meridiana, per esempio, L’ostaggio, Il
pane duro, La città , e anche Testa d’oro che non ha mai voluto
fosse rappresentata finche era in vita. Il suo teatro è riscoperto soprattutto nei
“milieu” degli intellettuali di sinistra più che dai cattolici. Non riesco ancora a
spiegarmi questo fatto. Mi sembra che sia accaduta la stessa cosa per la messa in
scena al Meeting di Rimini. È un’opera che nasce dalla sua conversione (Natale 1886
durante i Vesperi a Nôtre Dame) e allo stesso tempo esprime la mentalità della gente
di oggi, che non crede più a niente, come è stato per mio padre durante i suoi, anni
di gioventù».
Perché oggi vale ancora la pena di leggere L’Annuncio a
Maria?
È un opera che ha un carattere poetico molto interessante. Inoltre la situazione
che sviluppa è ben più contemporanea di quanto appare. Si tratta della storia di una
rottura familiare. Accanto a questo motivo, ci sono dei personaggi e dei dialoghi
che esprimono la Grazia che ha toccato mio padre durante il Magnificat nel
Natale 1886. Chissà quante persone c’erano quel giorno a Nôtre Dame, eppure la
Grazia ha toccato lui, ed è uscito da quella cattedrale convertito. Senza questo
fatto è più difficile capire il personaggio del padre, Anna Vercors, e la sua
decisione di partire in pellegrinaggio per Gerusalemme, lasciando figlie e moglie a
sbrigarsela da sole. Era proprio come mio padre, anche lui spesso partiva per
questioni di lavoro e lasciava sola mia madre con cinque figli. Diceva che aveva
altre occupazioni, altre cose che lo interessavano. Poi c’è il personaggio di
Violaine, il cui carattere non è certo dei più facili, ma la sua fede profonda le
permette di accettare “naturalmente” la realtà. Il miracolo che compie nasce dalla
sua passione che comunica la fede alla bambina morta. Mara è invece un personaggio
“terrestre”, mostra il limite umano. E infine c’è Pietro di Craon, un uomo
“perfetto”.
Come fu accolta l’opera quando uscì poco prima della Grande Guerra?
Per molti giovani è stata un’opera fondamentale. Il problema di fondo che incontra
sempre è quello della mancanza di un’educazione religiosa. Ad esempio alcuni registi
di teatro rinunciano a metterla in scena perché sentono che il pubblico ha
difficoltà ad accogliere l’idea di miracolo, del pellegrinaggio a Gerusalemme, o il
desiderio di costruire una cattedrale. La gente non crede più in tutte queste cose.
Quindi preferiscono recitare Lo scambio o La crisi meridiana, cioè
opere ritenute più “umane” che toccherebbero più direttamente i problemi dell’uomo
d’oggi.
Che cosa ha ispirato Claudel a scrivere quest’opera teatrale?
Non ce l’ha mai detto; non voleva che ne parlassimo in famiglia. Non ha mai
recitato un solo verso delle sue opere. Per noi bambini o per i suoi nipoti scriveva
delle storielle. Ma non parlava mai delle sue opere. Andavamo spesso a teatro,
soprattutto se erano recitate opere sue. L’Annuncio a Maria era l’opera che
amava di più. Per molto tempo ha sofferto perché era recitata male. Era furioso
perché nessuno la metteva in scena in modo semplice. Infatti l’ha riscritta due
volte, così pure La giovane Violaine.
Però spesso cambiava anche le opere. Nell’ultima versione
dell’Annuncio, Mara diventa più buona e Pietro di Craon alla fine
scompare…
Ci sono due versioni del IV atto, perché voleva semplificarlo. Spesso cambiava idea
voleva sempre aggiungere qualcosa. Diceva che in fondo un personaggio avrebbe potuto
agire anche in un altro modo. Inoltre gli piaceva scrivere e molte volte ricopiava
le sue opere.
Che cosa ricorda di suo padre nella vita di tutti i giorni?
Era un uomo appassionato a tutto quello che faceva. Si consacrava alla sua opera
letteraria la mattina fino alle nove, poi andava a lavoro all’ambasciata. La sera
invece, sbrigava la corrispondenza. Ha scritto migliaia di lettere. Nonostante tutto
questo lavoro, non l’ho mai sentito lamentarsi o dire che era stanco. Era sempre di
buon umore. Ha avuto una grande carriera diplomatica, a Boston, in Cina, a
Washington, a Rio de Janeiro; ovunque andasse era sempre felice; trovava sempre
qualcosa che lo interessava. Avrebbe potuto accontentarsi di essere un diplomatico
mediocre, per consacrarsi interamente a scrivere la sua opera, invece aveva un
grande interesse per i problemi economici. Soprattutto negli Stati Uniti. A New York
frequentava il banchiere G.P. Morgan, e a Wall Street era ricevuto da tutti i grandi
investitori. Aveva mandato al Ministero degli Esteri francese delle informazioni
molto importanti in cui aveva previsto la Grande Crisi del ’29. Lui, un letterato, è
stato l’ideatore del patto economico di pace tra il presidente francese Briand e il
segretario di Stato americano Kellog nel 1928. Questa sua passione per il lavoro è
nata in seguito alla sua conversione. Infatti, prese la decisione di trovare un
lavoro per due motivi. Innanzitutto, lavorare per il Ministero gli consentiva di
essere più libero di vivere la sua vera passione, cioè scrivere. E quindi non avere
problemi di soldi. S’immagini che fino a 75 anni non ha mai preso un soldo per le
sue opere teatrali. Il secondo motivo era legato a ragioni esistenziali. Dopo la sua
conversione aveva paura di diventare squilibrato come mia zia Camille o di perdere
la ragione come Rimbaud o Verlaine. Lui sentiva questo pericolo ed era terrorizzato
da tale ipotesi. Perciò cercò un lavoro e si sposò fondando una famiglia proprio per
sfuggire a una specie di “follia” e di abbandono di sé.
Com’era la fede di Paul Claudel? Vi ha mai parlato della sua conversione?
Non ha mai voluto parlarcene. Altrove, in qualche sua intervista o scritto, ha
raccontato cosa era successo. Però è rimasto sempre molto discreto su questo punto.
Era un fatto suo. Non ne parlò nemmeno ai miei nonni, i quali nonostante l’epoca
anticlericale in cui vivevano, cercavano almeno di praticare i sacramenti, senza
però approfondire niente. Lui aveva paura di non essere capito, o peggio ancora, di
far ridere. Sulla fede con noi era molto esigente, soprattutto per i sacramenti, in
particolare per la Santa Messa. Ci andava ogni mattina presto perché spesso era
celebrata in latino e poi perché durava solo mezz’ora. Gli piaceva ascoltare i canti
gregoriani e recitare le preghiere in latino. Rimase sorpreso quando si cominciò a
celebrare la Messa “al contrario”, come lui la chiamava. Pensava che fosse una
“fantasia francese” e lo scrisse anche in un articolo. Quando poi si rese conto che
si trattava di una decisione del Concilio, per rispetto e obbedienza alla Chiesa si
è piegato. Con noi bambini era molto attento e ci faceva da guida spirituale
DI LAURA CIONI
La pubblicazione del capolavoro di Claudel nella Collana “i libri dello spirito
cristiano” mi ha fatto tornare alla mente alcuni episodi, forse minori, forse non
destinati a rimanere negli archivi della storia del movimento, ma significativi, per
me certo, e forse per altri, avvenuti all’Università Cattolica. Siamo nel 1975,
l’inizio di una ripresa di vita che avrebbe poi trovato la sua espressione nella
famosa Equipe di Riccione nell’ottobre del 1976. In Cattolica ci sono tipi come
Simone, Amicone, Intiglietta, Fontolan, Banterle e tanti altri meno noti, eppure
amici dei suddetti, e amici degli amici. Quando gli avevo chiesto come fare a
“guidare” una comunità di 500 persone, don Giussani mi aveva detto: «Tu diventa
amica di 5 e ne raggiungi 50». E così avevo cercato di fare. Quei cinque amici
venivano o da un’esperienza molto politicizzata o da una scuola che non aveva
insegnato gran che e anche per questo, credo, non avevano letto alcuni testi
fondamentali per la comprensione del cuore del movimento. Tra questi vi era proprio
L’Annuncio a Maria di Claudel.
E così, nell’aula San Giovanni, quella ottenuta a fatica dalle autorità accademiche
negli anni precedenti come sede per la comunità, un po’ ripulita dal solito
disordine caro ai militanti, ma poco adatto per leggere e ascoltare, abbiamo
cominciato a leggere quel libro.
Per me era come un compagno: l’avevo letto già negli anni di Gs, e riletto più
volte durante l’università, scovando le connessioni, i temi dominanti, i simboli
celati sotto le parole, il temperamento dei personaggi. Non c’è nulla come l’età
giovanile che resti affascinata dall’allusività di situazioni e di vicende, che
provi l’incanto di una identificazione con questa o quella figura; il tempo, poi,
purifica l’eventuale estetismo e riempie tutto di una verità più profonda, perché
più reale, più dentro la vita.
Noi tutti vivemmo allora quell’incanto. Era proprio come l’alba del prologo e tutti
noi, come Violaine, nella inconsapevole grazia della promessa, avevamo davanti a
noi, con noi, la figura di Pietro di Craon, il costruttore, la sentinella. Eravamo
forse lontani dal presentire che l’Angelus suonava anche per noi in quegli
anni decisivi, eppure sentivamo vero quel «Pax tibi. Tutto riposa con Dio in un
mistero profondo. Ma quel ch’era nascosto torna visibile con Lui».
Ora, dopo un po’ di anni, siamo tutti forse più in grado di comprendere come sia
facile essere come Mara, o come Giacomo Hury e dobbiamo riconoscere di essere stati
tante volte così, calcolatori o senza una ultima apertura al Mistero. Oppure
riusciamo a intuire di più la grandezza di Anna Vercors nel quarto atto: «Io vivo
sulla soglia della morte e una gioia inesplicabile è in me», magari perché alcuni
tra noi se ne sono andati e insieme a loro tanti dei nostri cari e ognuno di noi ha
vissuto molte cose che, se ci ritrovassimo, sarebbe troppo raccontare e resterebbe
come un lungo silenzio di gratitudine a Dio per averci fatto vivere dei momenti come
quelli che abbiamo vissuto in quegli anni.
Questo per me, e spero tanto per quegli amici, quelli nominati e quelli no - è lo
stesso, sono tutti presenti -, vuol dire L’Annuncio a Maria: un libro vero,
letto senza schemi, con il cuore ancora un po’ incerto, ma già preso dalla bellezza
di Cristo, e una grande amicizia, che è stata l’introduzione alla vocazione della
vita e verso la quale il sentimento meno inadeguato è la gratitudine. Il libro solo
non basta, a mio parere, a spiegare il fatto che lo si riprenda in mano così
sovente, o che certe battute ritornino alla memoria in momenti impensati e gravi.
C’è anche il disordine appena riassettato dell’aula San Giovanni.
Proponiamo alcuni brani tratti dal libro di Jean Ambrouche Mémoires improvisés (Gallimard 1954). Si tratta di una raccolta di interviste radiofoniche rilasciate da Paul Claudel nei primi anni 50
Vorrei chiederle cosa l’ha determinata a porre come soggetto - diciamo anche come
scintilla creatrice de L’Annuncio a Maria- il miracolo.
Deriva da una lettura casuale che ho fatto di alcuni mistici tedeschi del Medioevo.
Mi sono molto occupato di mistica a un certo punto. Ho trovato in una leggenda
tedesca del Medioevo un passo che mi aveva colpito molto: quello di una mistica il
cui seno rifioriva. Non mi ricordo più in quale occasione, se si trattasse di un
bambino che voleva guarire, o se fosse lo stesso Bambin Gesù, che la Santa Vergine
le dava da allattare.
Un corpo organizzato in cui si vede bene che la sua preoccupazione è stata non di
giustapporre il mondo soprannaturale al mondo naturale, ma di mostrare che si
compenetrano e che sono - in una certa misura - simili, nel senso geometrico del
termine. Si vede bene questa sorta di scissione che separa le due sorelle: Violaine,
che è tutta Spirito, perché lo Spirito si è impadronito di lei, e Mara, che è tutta
carne, che è tutta terra; e tuttavia le due sorelle sono indissolubilmente legate
l’una all’altra, al punto tale che, alla fine del dramma, la figlia che hanno,
l’hanno in comune: è Mara che l’ha generata, ma l’amore di Mara ha in qualche modo
ucciso la figlia, e perché la figlia viva occorrerà l’intervento sia di Violaine sia
della Grazia, di cui Violaine è lo strumento.
Da qui la grande importanza del personaggio di Mara. Ho voluto che Mara fosse, in
qualche modo, assolutamente obbligata da una necessità assoluta (necessità innata in
lei) a rivolgersi a sua sorella per domandarle un miracolo inaudito: il miracolo
della resurrezione della figlia. Tra Mara e Violaine c’è una necessità spietata:
bisogna assolutamente che Violaine diventi santa, bisogna che questa santità serva a
qualcosa e che serva a questa madre che esige la vita di sua figlia. Il Vangelo ci
dice: «La tua fede ti ha salvato»; bisogna che la fede brutale, feroce di Mara serva
a qualcosa, che serva a fare una santa e a obbligare Dio, per così dire, a un
miracolo.
Da qui deriva l’elemento potente, veemente che fa tutta la forza e l’intensità de
L’Annuncio a Maria, che in realtà è un dramma, credo, sia umano che
sovrumano.
Lei parla della veemenza di Mara. Certo, la veemenza di Mara è molto sensibile,
come la necessità che la unisce al personaggio di sua sorella, poiché senza Mara
Violaine non sarebbe forse santa, o meglio, possiamo dire che un altro strumento
delle necessità, della predestinazione le sbarrerebbe la strada degli uomini, per
lasciarle aperta la via stretta che conduce alla santità.
Non è per nulla così: piuttosto sarebbe santa, perché si è santi quando si è
sottomessi alla volontà di Dio, ma occorre che la sua santità serva a qualcosa,
serva all’umanità.
Mara ha potuto sbagliarsi su diverse cose, ma c’è una cosa che non ammette e su cui
pensa di aver ragione: che la fede è credere che Dio possa far del bene. E da questo
punto di vista è giustificata, almeno a mio parere.
(traduzione di Flora Crescini)
Tratto da Tracce