Caligola o della felicità

Incuriosita dalla serata in onore di Albert Camus promossa dal Centro Culturale di Milano in occasione del quarantesimo anniversario della tragica morte dello scrittore, sono andata a rileggermi le pagine che più mi avevano commosso nel suo ultimo scritto, Il primo uomo, pazientemente ricostruito dalla figlia Catharine, sulla base degli appunti ritrovati nella macchina del padre sfasciata dopo l’incidente che gli tolse la vita nel 1960.

«Non restava ormai che quel cuore angosciato, avido di vita, ribelle all’ordine mortale del mondo, che lo aveva accompagnato per quarant’anni e continuava a battere con la stessa forza contro il muro che lo separava dal segreto di ogni vita, con la volontà di andare più in là, di andare oltre, e di sapere, sapere prima di morire, sapere finalmente per essere, una sola volta, un solo secondo, ma per sempre» (Albert Camus, Il primo uomo, Bompiani pag. 26). «Solo chi rinuncia a ciò che è, che accetta ciò che capita con le conseguenze - lui solo stabilisce veramente un contatto. Ritrovare la grandezza dei greci o dei grandi russi attraverso questa innocenza di secondo grado. Non avere paura. Non aver paura di nulla… Ma chi mi verrà in aiuto!» (pp.266-267).

È come l’attesa di una risposta totale alla sua vita così intensa? E infine un breve e denso punto, che può rendere efficacemente ragione, a posteriori, della tormentata vicenda di Caligola: «La nobiltà del mestiere dello scrittore è nel resistere all’oppressione, e quindi nell’accettare la solitudine» (p. 286). La stesura di questa opera teatrale durò quasi vent’anni, attraverso una rielaborazione continua che portò a tre stesure definitive caratterizzate da forti differenze nel testo. Quella recentemente rieditata è la seconda e risale al 1941, dopo la rottura con il partito comunista di cui Camus era esponente e venne pubblicata da Gallimard solo nel 1944, dopo il successo del romanzo breve Lo straniero presso lo stesso editore parigino nel 1942.

Nel 1945 Caligola ottenne un notevole successo in una rappresentazione teatrale in cui portò alla ribalta un giovane e sconosciuto attore, Gerard Philipe. Gli intellettuali contemporanei riconobbero, dietro la maschera del folle imperatore, la figura di Hitler ed è ben visibile in altri personaggi la coscienza lucida di chi, a quei tempi, pur consapevole della tirannide, non seppe opporvisi per la debolezza della propria identità culturale. Significativo, a questo proposito, un breve passo del IV atto, in cui il filosofo Cherea dichiara ai senatori, ormai decisi alla congiura per eliminare Caligola: «Devo riconoscere che quest’uomo ha esercitato su di me una innegabile influenza. Mi costringe a pensare. Costringe tutti a pensare» (p. 50).

Per quanto interessante, questa lettura non rende del tutto giustizia a un testo che presenta ulteriori suggestioni. I lettori di don Giussani hanno ben presente che in Realtà e giovinezza. La sfida (SEI, Torino), viene commentata la celebre scena in cui Caligola esprime il proprio infinito, straziante bisogno di felicità, chiedendo al suo confidente Elicone, la luna (pp. 21-23). Nella redazione del 1941, la scena si trova nel terzo atto e il testo sintetizza con efficacia altri tratti della figura dell’imperatore, che si ricavano da una lettura attenta: la lucidità, la malinconia, una vergognosa tenerezza, il rimpianto dell’amore perduto, la spaventosa solitudine, il disincanto e la ferocia, danno tutti la misura di una grandezza umana, della quale, per quanto impazzita, non si può che rimanere meravigliati. In un’altra scena significativa si trova ancora una lucida analisi di Cherea, il quale, davanti ai senatori, identifica in Caligola poesia e potere come elementi che, uniti, forniscono al tiranno la purità e insieme la totale disumanità dell’arte, quando essa può realizzare il proprio sogno.

«Attraverso Caligola, per la prima volta nella storia, la poesia provoca l’azione e il sogno la realizza. Lui fa ciò che sogna di fare. Lui trasforma la sua filosofia in cadaveri. Voi dite che è un anarchico. Lui crede di essere un artista. Ma in fondo non c’è differenza. Io sono con voi, con la società. Non perché mi piaccia. Ma perché non sono io ad avere il potere, quindi le vostre ipocrisie e le vostre viltà mi danno maggiore protezione - maggiore sicurezza - delle leggi migliori. Uccidere Caligola è darmi sicurezza. Finché Caligola è vivo, io sono alla completa mercé del caso e dell’assurdo, cioè della poesia. Vedo sui vostri volti risentiti il sudore della paura. Anch’io ho paura. Ma io ho paura di quel lirismo disumano al cui confronto la mia vita non è niente. È questo il mostro che ci divora, ve lo dico io. Se c’è un solo individuo puro, nel male o nel bene, il nostro mondo è in pericolo» (pp. 20-21).

Caligola stesso, nel IV atto, poco prima della morte, conferma allo stesso Cherea: «Gli altri creano perché non hanno il potere. Io non ho bisogno di un’opera. Io vivo» (p. 56) e, poco più sotto, alla cortigiana Cesonia: «Ognuno si procura la sua purezza come può. Io lo faccio cercando l’essenza delle cose. Il che non esclude che potrei farti uccidere» (p. 58). Dopo gli anni che hanno visto il crollo delle utopie, e certo senza forzare in nulla il pensiero di Camus, ritengo che sia molto interessante e lecita una rilettura di parte almeno della sua opera in chiave fortemente critica rispetto alla sua stessa convinzione politica.

Tratto da Tracce