ritratto di Lewis

Ch.S. Lewis

pubblicato su Tracce 03/1982

La sua vita

La vita consiste prima di tutto nell'imperterrito esercizio della ragione. (Pasolini)

Premessa

La storia della vita e dell'opera di C.S. Lewis è segnata da una duplice esperienza: quella di un desiderio, così profondo da non poter trovare una risposta, che sta nell'anima come il Siège Perilous nel castello di re Artù (sul quale nessuno che non fosse il Predestinato poteva sedersi), e quella della risposta ad esso, impossibile all'uomo eppure certa, perché la natura non fa niente a caso. Più di ogni altro scrittore moderno, Lewis ha avvertito l'universalità di questa esperienza e, forse per questo, l'ha posta al centro di tutti i suoi libri. Alla ricerca di questa risposta John parte per il suo viaggio verso l'Isola, ed avendola trovata fa ritorno a Purilandia; contro questa certezza e la sua incomprensibile ma acuta logica deve combattere e soccombere l'inesperto Malacoda. Per ognuno dei suoi scritti allora valgono le parole di avvertimento delle prime pagine della sua autobiografia: Sorpreso dalla gioia, «il lettore che trova questi tre episodi di nessun interesse può anche fare a meno di andare avanti, perché in un certo senso il nocciolo della mia vita è tutto qui. Per chi è ancora disposto a leggermi, mi Imiterò ad evidenziare quello che tutte e tre le esperienze hanno in comune, e cioè un desiderio inappagabile che è esso stesso più desiderabile di qualsiasi appagamento. Io lo chiamo gioia, che qui è un termine tecnico e va nettamente distinto dalla felicità così come dal piacere. A parte questo, e solo in base alla sua natura, potremmo anche considerarla una infelicità o un dolore di genere particolare».

Clive Staples Lewis nacque a Belfast, nell'Irlanda del Nord, nel novembre del 1898, in una famiglia della borghesia protestante della città. Il padre era avvocato e discendeva da veri gallesi: «sentimentali, passionali e retorici, facili all'ira come all'intenerimento; uomini che ridevano e piangevano molto, e possedevano scarso talento per la felicità». La madre era figlia di un pastore protestante, aveva studiato al Queen's College di Belfast e vi si era laureata in Lettere; gli Hamilton erano, a differenza dei Lewis, dotati di «spirito critico e ironico, possedevano al massimo il dono della felicità» e sapevano trovarla ovunque.

I genitori di Lewis, almeno fino alla malattia ed alla morte della madre, furono molto vicini ai figli ed ebbero una grossa influenza sul loro carattere. Il padre era, tra l'altro, bravissimo a raccontare storie ed aveva un notevole anche se molto personale gusto letterario; la madre, che preparò il giovane Lewis allo studio del latino e del francese, era anch'ella una «divoratrice di buoni romanzi» e gli comunicò la sua stessa passione per la letteratura. La figura che già da questi anni ha però la parte maggiore nella vita di Lewis è quella del fratello maggiore, «alleato per non dire complice». A lui è legata quella prima esperienza estetica, che, come ben sa chi ha letto Le due vie del pellegrino, tanto può determinare l'esistenza di chi l'ha provata.

L'angelo canta

lo non so, non so io,
Quel che gli uomini dicono insieme,
Come gli amanti, gli amanti muoiono
E la giovinezza passa e va.

Comprender non so
L'amor che il mortal porta
Per la terra natia, terra natia
Son lor tutte le terre.

Perché alla tomba s'attristar!
Per una sol voce e un volto,
E non voglion, ricever non voglion
Un altro al posto suo.

lo, là sopra la volta
Che la notte racchiude
Volando, non ho mai conosciuto
Diversa luce,

Dolore è quel ch'essi chiaman
Questa coppa: da cui il mio labbro,
Me misero, giammai per tutti
Gl'infiniti miei dì dovrà sorbire.

«Un giorno, mio "fratello portò nella nostra stanza il coperchio di una scatola di biscotti che aveva ricoperto di muschio e ornato di fiori e ramoscelli per dare l'idea di un giardino o di una foresta giocattolo. Fu la prima cosa bella che abbia visto. Il giardino giocattolo fece quello che il giardino vero non era riuscito a fare. Mi permise di scoprire la natura (...) Al momento non vi feci caso, ma l'effetto che ne ebbi doveva rimanere impresso nella memoria. Finché vivrò, la mia immagine del Paradiso conterrà qualcosa del giardino giocattolo di mio fratello».

L'infanzia di Lewis fu però molto povera, se non priva, di un'esperienza religiosa autentica. La sua famiglia era credente, ma la fede vi si esprimeva solo con l'adesione ad alcune pratiche religiose, senza alcuna connessione con la sostanza della vita. Quando, con la morte della madre, iniziò la sua educazione scolastica in Inghilterra, egli si distaccò via via da una fede di cui non avvertiva il valore e che, «per un semplice sbaglio di tecnica spirituale», aveva trasformato in un «pesante fardello» di doveri da compiere, sino ad arrivare nel 1911 a «smettere di essere cristiano».

Da quel momento — e leggendo la sua autobiografia Sorpreso dalla gioia sembra quasi di seguire il viaggio di John il protagonista de Le due vie del pellegrino — Lewis percorre un lungo cammino che lo porta dalle fantasie occultiste dei primi anni di agnosticismo alla conversione al cristianesimo.

Nel 1913 vinse una borsa di studio in umanistica e dopo un anno di studi al Wyvern College si preparò a sostenere l'esame di ammissione ad Oxford con l'aiuto di un istitutore privato: W.T.Kirkpatrick, già direttore del Lurgan College; «Kirk» o «il Grande Knock» come si era abituato a sentirlo chiamare dal padre e dal fratello. Il Grande Knock si rivelò però, fin dal primo incontro, molto diverso da quello spirito sentimentale e paternalista che i ricordi paterni lasciavano supporre, «se mai un uomo rasentò la pura entità logica, quest'uomo era Kirk. Se fosse nato qualche anno dopo, sarebbe stato un positivista logico. L'idea che un uomo potesse servirsi dei suoi organi vocali diversamente che per comunicare o per scoprire la verità era per lui semplicemente assurda».

Questa qualità non dispiacque però a Lewis che in quegli anni, come scriverà più tardi, poteva interessarsi solo a due tipi di discorso: il quasi puramente fantastico ed il quasi puramente razionale, e se la spietata dialettica dell'istitutore gli , diede allora «nuove munizioni per la difesa di una posizione già conquistata», poiché il suo ateismo ed il suo pessimismo si erano già pienamente formati, molti anni dopo il rigore e la serietà intellettuale che da lui apprese avranno una parte molto importante nella sua conversione.

Il desiderio

L'esperienza è quella di un intenso desiderio o brama. Si distingue dagli altri desideri intensi per due cose. !n primo luogo, sebbene il senso del bisogno sia acuto ed anche penoso, tuttavia il mero bisogno si sente come se fosse in qualche modo una gioia. Altri desideri si sentono come piaceri soltanto se se ne attende soddisfazione nel futuro prossimo; la fame è piacevole soltanto quando sappiamo (o crediamo) che presto mangeremo. Ma questo desiderio, anche quando non v'è speranza di una possibile soddisfazione, continua ad essere apprezzato, perfino ad essere preferito a qualsiasi altra cosa al mondo, da parte di coloro che l'hanno sentito una volta. Questa fame è meglio di qualsiasi altra ricchezza.

E così succede che, se il desiderio resta assente per lungo tempo, può venire esso stesso desiderato e tale nuovo desiderare diventa un nuovo esempio del desiderio originale, sebbene colui che ne è soggetto possa non riconoscere s'ubito il fatto e, così, piange la perdita della giovinezza dell'anima sua nello stesso momento in cui ringiovanisce. E' una faccenda che sembra complicata, ma è semplice per chi la vive. «Oh, sentirmi come mi sentivo allora!» ci lamentiamo, senza accorgerci che proprio nel dire queste parole, quello stesso sentimento di cui lamentiamo la perdita sta risorgendo in noi con tutta la sua vecchia sensazione dolceamara. Perché questo dolce desiderio taglia via le distinzioni che ordinariamente facciamo tra il desiderare e l'avere.

Nell'inverno del 1916 sostenne l'esame per l'ammissione ad Oxford e, sebbene fosse stato certo del contrario, ottene un risultato positivo. Tuttavia non frequentò l'Università che per pochi mesi perché si arruolò ed entrò nel Corpo Addestramento Ufficiali Universitari. Completato il corso a Keble, parti per il fronte francese dove giunse il giorno del suo diciannovesimo compleanno, il 29 novembre 1917. Lewis non divenne un eroe ma fu comunque un ottimo soldato tino a che non venne gravemente ferito da una granata a Mont Bernenchon, presso Lillà, nell'aprile del 1918. Durante un periodo di malattia precedente la ferita, lesse per la prima volta un libro di Chesterton. Fu un episodio importante come lo era stato qualche anno prima la lettura di MacDonald, e molti anni dopo scriverà:

«Nel leggere Chesterton, come nel leggere Mac Donald, non sapevo a cosa andassi incontro. Un giovane che desidera rimanere un perfetto ateo non può andare troppo per il sottile nelle sue letture. Ci sono trabocchetti sparsi dappertutto: «Bibbie lasciate aperte, milioni di sorprese», come dice Herbert, «reti sottili e stratagemmi». Dio è, se così possiamo dire, pochissimo scrupoloso».

Nel 1919 venne congedato e ritornò ad Oxford per completarvi gli studi di Filosofia prima, e di Inglese poi. Nel 1924 fu per un anno docente temporaneo in quello stesso College e dal 1924 al 1954 docente al Magdalene College, fino al 1954 anno m cui assunse l'incarico, che non abbandonò fino alla sua morte, di professore di Letteratura inglese medievale e Rinascimentale all'Università di Cambridge. Morì quando mancavano pochi giorni al suo sessantacinquesimo compleanno, il 22 novembre 1963.

Agli ultimi anni di studi ad Oxford ed ai primi di insegnamento è legata l'esperienza della conversione, di cui Lewis ricorda le tappe negli ultimi capitoli di Sorpreso dalla gioia. che difficilmente si possono leggere nella loro logica incalzante, senza avvertire la razionalità della conclusione. Sotto il titolo Scacco matto, sono raccolte le mosse che lo costrinsero alla resa a Dio. Prima di ogni altra q cosa furono i libri «che cominciarono a rivoltarmisi contro». Si accorse che la regola cui aveva sempre dato fiducia lo stava tradendo, autori come George MacDonald e G.K. Chesterton che aveva sempre considerato validi a prescindere dal loro «pallino religioso» davano ai loro libri tutta la «ruvidezza e la densità della vita» che al contrario non traspariva proprio da quegli autori come G.B. Shaw, H.G. Wells o Voltaire che non erano «afflitti dalla religione».

Un'esperienza analoga ebbe nell'amicizia con J.R.R. Tolkien, poiché come scrive: «fin dal mio arrivo in questo mondo mi avevano (tacitamente) avvertito di non fidarmi mai di un papista e (apertamente) al mio arrivo alla Facoltà di inglese, di non fidarmi mai di un filologo» e Tolkien era l'uno e l'altro. Seguono, una dopo l'altra, le mosse dell'Avversario che lo portano a quella che gli apparve sempre una libera scelta.

«Risalivo Headington Hill sull'imperiale di un autobus. Senza parole e (credo) quasi senza immagini, mi si affacciò alla mente un fatto che mi riguardava. Mi resi conto cioè che cercavo di sfuggire o di chiudere fuori qualcosa. Sentii che mi si offriva, in quel momento, una libera scelta. Potevo aprire la porta o tenerla chiusa; togliermi l'armatura o tenerla. Nessuna delle due alternative mi veniva presentata conte un obbligo; nessuna minaccia o promessa le accompagnava per quanto sapessi che aprire la porta o togliermi il corsaletto voleva dire l'incommensurabile. La scelta aveva tutta l'aria di essere determinante, ma era anche stranamente, scevra d'emozione. Non mi agitavano desideri né paure. Decisi di aprire la porta, di togliermi l'armatura, di allentare le "briglie. Ho detto "decisi", eppure non mi parve realmente possibile fare il contrario. D'altro canto non ne avevo i motivi. Qualcuno osserverà che non agivo liberamente, ma io sono incline a pensare che si trattò di un'azione più libera di quante ne avessi mai compiute. La necessità può non essere il contrario della libertà, e forse un uomo è più libero quando, anziché addurre motivi, può solo dire: "Sono ciò che faccio"».

La sua prima conversione fu all'idealismo, ma ben presto Lewis si avvide che se di esso si può parlare è impossibile viverlo, perché è contrario alla ragione che lo «spirito» ignori o accetti passivamente gli approcci di chi gli si rivolge. Tutto non faceva che sospingerlo verso la nuova tappa della quale già intuiva, lucidamente, la conseguenza: ecco che come avviene per le ossa aride nella profezia di Ezechiele, un principio filosofico «si agitava e sollevava e liberava del suo sudario per divenire una presenza viva». Egli che aveva A sempre cercato di mantenersi libero da interferenze, di mantenere il proprio ideale entro lo spazio del «ragionevole», si trovò, improvvisamente al cospetto dell'Infinito.

«Tutto solo in quella stanza di Magdalen, avvertivo su di me, una notte dopo l'altra, ogni qualvolta la mia mente si distraeva anche un attimo dal lavoro, la ferma, inesorabile stretta di Colui che mi rifiutavo ostinatamente di conoscere. Ciò che avevo più temuto si era alla fine impadronito di me. Durante il trimestre della trinità del 1929 mi arresi, ammisi che Dio era Dio e mi inginocchiai per pregare: fui forse, quella sera, il con-vertito più disperato e riluttante d'Inghilterra. Allora non mi avvidi di quello che oggi è così chiaro e lampante: l'umiltà con cui Dio è pronto ad accogliere un convertito anche a queste condizioni».

La conversione per Lewis non fu dunque né immediata né facile perché ogni suo passo, «dall'assoluto» allo «spirito» e dallo «spirito» a «Dio», era stato un passo verso il più completo, il più imminente, il più costrittivo. A ogni passo si aveva meno possibilità di «chiamare propria la propria anima»... così fino all'ultimo: accettare l'Incarnazione, che se ci porta «più vicini a Dio, o vicini in modo diverso», non suscita per questo meno ribellione in chi sente di dover ormai rinunciare a se stesso per riconoscere un'altra persona come legge della propria esistenza.

La sua opera

Vi scriva su magari un libro, se ne sente una qualche inclinazione; è spesso un modo eccellente di sterilizzare i semi che il Nemico pianta nell'anima umana. Lasciagli fare qualsiasi cosa perché non venga all'azione.
Berlicche

Le due vie del pellegrino

Il primo romanzo scritto da Lewis è Le due vie del pellegrino, che venne pubblicato per la prima volta nel 1933 in Gran Bretagna. Il titolo completo in inglese ne rivela apertamente il carattere: The Pilgrim's Regress: An Allegorical Apology for Christianity, Reason and Romanticism.

Il ritorno del pellegrino, la strada che il giovane John percorre per ritrovare l'Isola che aveva scorto da bambino e contemporaneamente l'allegoria dell'avventura della ragione, che Lewis aveva vissuto e che aveva toccato il suo vertice tre anni prima, con la sua conversione. John è un ragazzo o poco più quando lascia la sua casa ed i genitori nel paese di Puritania, si mette in viaggio determinato a ritrovare l'isola della cui esistenza è certo perché l'ha veduta, anche se talvolta l'immagine gli si confonde nella memoria. Durante il viaggio John incontra spesso chi gli parla dell'isola e di come essa sia, in qualche modo, il desiderio o forse solo il sogno di tutti gli uomini. La maggior parte degli uomini la considera, per la verità, soltanto un sogno e, pertanto, stima vana la ricerca di John. D'altra parte chi ha buonsenso sa che tutti, prima o poi, trovano un isola di qui o di là, basta sapersi accontentare. Perché non fare come loro? Scegliere un paese, questo o quello poco importa purché sia comodo; sognare si può, ogni tanto, senza esagerazione. L'alternativa sembra essere una sola: tentare di realizzare il sogno, costruire un isola o qualcosa che le assomigli; ma questo ai più non sembra molto ragionevole.

Eppure per John non si tratta di un sogno, bensì di un desiderio alimentato da un ricordo, confuso ma non confondibile con un'illusione. Egli scopre, come scoprì Lewis leggendo la teoria della « contemplazione » di Alexander, che se non si confonde il desiderio con il suo oggetto, allora esso diviene un potente alleato per l'uomo che lo segue con onestà, esso gli svela i « falsi oggetti del desiderio » e lo rimette costantemente in cammino verso la risposta.

Il viaggio di John si interrompe sul fondo di un Canyon, è la spaccatura che dalla nascita del mondo arresta il cammino degli uomini verso l'isola, lo rende impossibile come è ora impossibile a John, che è stato capace di arrivare fino al confine, superarlo con le sue sole forze.

« Fissò le cime delle rocce ed il cielo stretto tra di esse, scuro e lontano, e pensò a quello spirito universale e alla fulgida quiete nascosta chissà dove, dietro i colori e le forme, al silenzio gravido nascosto sotto tutti i rumori, e pensò: "Se una goccia di tutto quell'oceano scorresse in me ora, se io, il mortale, realizzassi ciò che sono, tutto sarebbe migliore". Nell'amarezza del suo animo egli alzò lo sguardo ancora, dicendo: "Aiuto. Aiuto. Io voglio Aiuto" ».

Tuttavia, poiché non si può chiedere aiuto se non a chi lo può prestare, nonostante la confortante soluzione di aver parlato per metafora, il giovane John deve ammettere di non aver pregato se stesso; di non avere realmente pensato « Io » ma « Tu ». Improvvisamente però la metafora si anima, la domanda diventa preghiera perché qualcuno si avvicina per aiutarlo: « ancora una volta un Uomo venne a lui nelle tenebre e disse: "Devi passare la notte lì dove sei, ma ti ho portato un pane e se vuoi strisciare lungo quella cencia ancora per dieci passi, troverai là una piccola cascata d'acqua che scende dalla cima" ».

Quando John arriva all'Isola scopre che essa non è altro che l'arco di montagne che già da Puritania aveva scorto; le montagne sono l'Isola, solo il suo punto di vista è cambiato. John torna vèrso casa, ma questo nuovo cammino che è il ritorno è diverso, nuovo. Per lo stesso motivo l'ultimo capitolo dell'autobiografia di Lewis è intitolato « L'inizio ».

Nella prefazione a Le due vie del pellegrino, Lewis esprime il desiderio di essere riuscito in questo libro a scrivere non soltanto un'allegoria (che dovrebbe essere il « contrario che dire in modo complicato qualcosa di semplice »), ma una buona allegoria, perché essa allora si avvicinerebbe al mito « che si coglie con l'immaginazione, non con l'intelletto ». Egli diede ai lettori della terza edizione del romanzo una « chiave » interpretativa solo perché si accorse che i più erano disabituati alla scrittura allegorica. I pochi che la conoscevano erano affatto incapaci di applicare il loro sapere al libro, tanto da essere sconcertati dal sottotitolo: Apologia allegorica del Cristianesimo, della Regione e del Romanticismo.

Con la parola Romanticismo Lewis non fa riferimento ad uno dei tanti significati ad essa attribuiti, ma ad un'esperienza precisa: l'intenso desiderio per qualcosa di misterioso eppure conosciuto, al quale risultano inadeguate tutte le risposte, ma che non per questo cessa di essere. La Ragione, che nel libro John trova sulla sua strada, è quell'energia che rettamente intesa gli permette di proseguire il cammino, senza perdersi dietro ai falsi compimenti del desiderio che è in lui. E' Ragione che scioglie i dubbi di John, invitandolo ad accompagnarla: « potrai camminare con me fino a che non ti stancherai. Ma io posso dirti solo ciò che tu conosci. Posso portare fuori qualcosa dalla parte buia della tua mente, per metterlo in quella illuminata. Ma non chiedermi ciò che non è nemmeno in quella oscura ».

Posso insegnarti a riconoscere l'errore delle sue conseguenze. Non posso assicurarti che l'Isola sia qualcosa di reale, né che non lo sia. Posso però insegnarti a mantenere viva la tua domanda fino ad incontrare l'evidenza di una risposta.

Nel 1936 Lewis sviluppò le sue osservazioni sul metodo allegorico ne L'allegoria dell'amore, uno studio sulla letteratura medievale (con particolare riferimento al poeta inglese Chaucher del XIV sec.), che tratta dei rapporti tra lo sviluppo delle forme letterarie della « poesia cortese » ed il parallelo sviluppo della concezione e del sentimento dell'amore.

Le lettere di Berlicche

« Mio caro Malacoda, mi fa meraviglia che tu mi chieda se sia essenziale tenere il tuo paziente nell'ignoranza della tua esistenza. A codesta domanda, almeno per l'attuale fase della lotta, è già stato risposto per noi dall'Alto Comando. La nostra politica per il momento, è di tenerci nascosti ». Berlicche

J.Bosch

Le lettere di Berlicche, forse il libro più conosciuto ed apprezzato di Lewis, fu pubblicato per la prima volta a Londra nel 1942, tradotto in italiano e pubblicato nel 1947 ed ancora nel 1959, ora è reperibile negli « Oscar Mondadori » con un'introduzione di Luigi Santucci.

Nel suo Brindisi di Berlicche Lewis dirà che niente è stato così difficile per lui che riprendere a scrivere la corrispondenza tra la potente Abissale Sublimità il Sottosegretario Berlicche ed il giovane apprendista tentatore, suo nipote Malacoda. E' stato facile, estremamente facile imitare lo stile del Diavolo, è difficile drammaticamente difficile liberarsi della maligna influenza della sua logica. Questo, al contrario di quanto si potrebbe credere, non è solo uno scrupolo dell'autore. Credo sia impossibile leggere le lettere apprezzando « la metafisica trovata del Diavolo epistolante » (come ha scritto Santucci), senza avvertire anche una sorta di pena.

Si può gustare la capacità dell'autore di « braveggiare nelle arti della psiche », non si può non temere la perfetta conoscenza della psicologia umana del Diavolo. Se è vero che il Diavolo « sinistramente e sottilmente, fa ridere » io, tutte le volte che leggo Berlicche, non riesco a ridere senza essermi prima guardato alle spalle.

Le lettere di Berlicche rivelano la faccia nascosta dell'avventura di John, se nell'uomo c'è un desiderio che lo spinge verso l'Altro, se questo desiderio è stato posto dentro di lui come un meccanismo pronto a mettersi in moto, c'è parimenti la capacità di pervertire il desiderio e di arrestare il proprio movimento davanti ad un idolo.

« Avevo una volta un paziente, un ateo ben saldo, che era solito recarsi a studiare nella biblioteca del British Museum. Un giorno, mentre stava leggendo, m'accorsi che un certo filo del pensiero cominciava a prendere una direzione sbagliata. Il Nemico, naturalmente, gli fu in un attimo al fianco.

Prima che riuscissi a raccapezzarmi, vidi che il mio lavoro di vent'anni cominciava a barcollare. Se, perdendo la testa, mi fossi messo a tentare una difesa per mezzo di una discussione, sarebbe stata finita per me. Ma io non sono così sciocco. Senza perder tempo colpii quella parte che in lui era più di ogni altra sotto il mio controllo, e suggerii che era giusto il tempo di andare a fare un po' di colazione. Il Nemico, è presumibile, fece a sua volta la contro-insinuazione che ciò che stava pensando era più importante della colazione. Almeno io penso che la Sua linea sia stata questa, perché, quando io osservai: "Perfettamente. Anzi, e troppo importante perché ci si accinga a trattarne a mezzogiorno", il volto del paziente s'illuminò considerevolmente; ed io non feci in tempo ad aggiungere: "Molto meglio tornare dopo pranzo, e trattare l'argomento con mente fresca", che era già a mezza strada verso la porta. Una volta sulla via la battaglia fu vinta. Gli mostrai il giornalaio che gridava le notizie delle edizioni pomeridiane, e un autobus, il n. 73, che passava, e prima che giungesse in fondo ai gradini riuscii a convincerlo più che mai che, siano pur strane fin che si vuole le idee che sorgono in capo quando si è chiusi da soli con i propri libri, una dose salutare di « realtà della vita » (e con ciò intendevo dire l'autobus e il giornalaio) bastava per dimostrargli che "tutte quelle robe" semplicemente non potevano essere vere ».

John ha conosciuto la pochezza di questi uomini, condannati a vivere in un piccolo mondo perché non hanno saputo spingersi oltre la loro immaginazione, ma Lewis sa che l'uomo non è destinato a questo.

Ciò è di una tale evidenza che il timore costante di Berlicche è che il paziente segua onestamente la propria natura, che l'uomo, si serva correttamente della ragione, usi di essa per paragonare con la propria esperienza tutto ciò che incontra: « La caratteristica dei Dolori e dei Piaceri è che non si può sbagliare sulla loro realtà e perciò, in quanto esistono, offrono all'uomo che li prova una pietra di paragone della realtà. (...) ti eri messo a dannare il tuo paziente per mezzo del Mondo, vale a dire col presentare, la vanità, il daffare, l'ironia, e il tedio costoso come se fossero piaceri. Come non sei riuscito a capire che un piacere vero era l'ultima cosa che avresti dovuto lasciargli incontrare? » L'anima affidata alle « cure » di Malacoda si salverà sfuggendogli dalle mani all'ultimo istante. Entrata ormai nel mondo vero vedrà chiaro per la prima volta. Potrà accostarsi a Lui, godere di quella presenza che per il Diavolo è intollerabile, partecipare di quel mistero che per il Male è inesplicabile:

« perché nutre il curioso ghiribizzo di fare di tutti cadesti disgustosi vermiciattoli umani, altrettanti, come dice Lui, suoi "liberi" amanti e servitori, e "figli" è la parola che adopera, secondo l'inveterato gusto che ha di degradare tutto il mondo spirituale per mezzo di legami innaturali con gli animali a due gambe. Volendo la loro libertà, Egli si rifiuta di portarli di peso, facendo uso soltanto delle loro affezioni e delle abitudini, al raggiungimento di quegli scopi che gli pone innanzi, ma lascia che "li raggiungano essi stessi" ».

A che cosa si riduce il mio reiterato avvertimento
che egli ama veramente i vermi umani
e veramente desidera la loro libertà
e la continuazione della loro esistenza?
Berlicche

Il grande divorzio

Il tema della libertà è al centro de Il grande divorzio, pubblicato per la prima volta nel 1945. Si tratta di un sogno, o piuttosto di una visione) che ricorda quella di Dante. Il protagonista è Lewis che guidato dal poeta George MacDonald si muove in un mondo di fantasmi inconsistenti e, di Spiriti luminosi. Nella sua visione egli ha lasciato insieme alle ombre un paese grigio e tetro e con loro è arrivato ad una terra luminosa e di tale splendente consistenza che le ombre ne sono ferite in tutti i loro movimenti. Qui egli assiste agli incontri tra esse e le creature luminose e possenti degli abitanti di quella terra, che sono venuti incontro ai fantasmi per accompagnare ciascuno di loro alle montagne lontane.

Ogni incontro si risolve nella provocazione più decisa alla libertà dell'ombra, affinché abbandoni ogni pregiudizio e decida di fidarsi della guida. Ma proprio perché è nella sua natura essere tale, la proposta non fa che evidenziare la posizione umana che era stata dell'ombra: «il principio dell'inferno è: io sono mio».

L'ombra che incontra l'assassino dell'amico, si scandalizza che l'omicida sia arrivato prima di lui, che addirittura proprio questa sia la guida all'amico e a ciò che lo attende sulle montagne. «Non dico di essere stato un uomo pio... ma ho fatto del mio meglio per tutta la vita, giusto? non ho mai chiesto niente a cui non avessi già diritto... e ora chiedo solo ciò che mi spetta». Non sa, non ascolta quando gli viene detto che non sarebbe lì come un ombra vana se, sapendo di non averne nessun diritto, avesse osato chiedere qualcosa di meglio, se avesse aspirato ad una misura più grande della propria.

L'ombra che fu «un grande spirito» della religione spiega all'angelo risplendente che le sta innanzi che, dopo tutto, non si deve credere all'Inferno ed al Paradiso in senso letterale. Chiamare Inferno il luogo dal quale egli proviene, come sembra fare lo Spirito, sarebbe un poco blasfemo.

«Vuoi, almeno ora, pentirti e credere?»
«Non sono sicuro dì capire bene il tuo punto di vista».
«Non è un punto di vista, ti dico di pentirti e di credere».
«Ma caro ragazzo, io credo già. Possiamo anche non essere troppo d'accordo, ma tu devi avermi completamente 'frainteso se non hai capito che per me la mia religione è qualcosa, di veramente reale e veramente prezioso».
«Molto bene. Vuoi credere in me?»
«In che senso?»
«Verrai con me sulle montagne? Sarà duro in principio, finché i tuoi piedi non si saranno rinforzati. La realtà dura sotto i piedi delle ombre. Ma verrai?»
«Dunque, questo è il progetto. Sono perfettamente preparato a considerarlo con attenzione. E' ovvio che potrei richiederti qualche garanzia... Potrei chiederti di assicurarmi che mi stai portando in un posto dove troverà un migliore impiego dei talenti che Dio mi ha dato — in un'atmosfera di libera ricerca intellettuale — in breve, tutto ciò che significano le parole civiltà e vita spirituale».
«No. Non ti prometto niente di tutto questo. Nessun campo di applicazione: non c'è affatto bisogno di te là. Nessuno scopo per i tuoi talenti: solo il perdono per averli pervertiti. Nessuna atmosfera di libera ricerca, perché io non ti porto -nella terra delle domande ma delle risposte, e tu vedrai il volto di Dio».
«Ah! Ma dobbiamo sempre interpretare queste belle parole secondo il nostro modo. Secondo me non esiste qualcosa come la risposta definitiva. Il libero vento della ricerca deve continuare sempre a soffiare sulle nostre menti, non è' vero? "Provate tutte le cose"... viaggiare con la speranza è meglio che arrivare».
«Se questo fosse vero, e ritenuto come vero, come si potrebbe viaggiare con speranza? Non ci sarebbe niente in cui sperare...».

L'intuizione che il Desiderio provoca la libertà dell'uomo a ricercare prima ed a riconoscere poi, la risposta alla sete naturale, costituisce il frutto degli anni di studio e di riflessione attenta sulla propria esperienza che sono trascorsi dalla sua conversione.

altre opere

Gli studi di letteratura e filologia medievale, filologicamente accurati ed ancora validi, di cui è testimonianza per esempio L'allegoria dell'amare (tr. it. Einaudi), non fanno che confermarlo nella sua convinzione. Tutto serve al bene purché, come ha 'scritto a proposito della sua «gioia» nell'ultima pagina dell'autobiografia, si intenda «che il suo unico pregio consisteva nell'additarmi qualcosa di diverso e di esterno». Quando, sperduti nel bosco, si trova un cartello che segna la via, «non ci si ferma a guardarlo, o non molto; non su questa strada, nonostante il palo sia d'argento e la dicitura d'oro». «Presto saremo a Gerusalemme».

La «trilogia spaziale» di Lewis, pubblicata in Italia da Mondadori ed ora in ristampa, comprende tre romanzi: Lontano dal pianeta silenzioso (1938), Perelandra (1943) e Quell'orribile forza (1945), di cui ora è reperibile soltanto il primo.

Dopo aver letto quanto Lewis ha scritto sul valore dell'allegoria non è facile leggere la storia del «buon» filologo di Cambridge e del suo viaggio forzato su Marte, con quel che segue, solo come un «ottimo esempio della miglior fantascienza», come si è più volte fatto. Indubbiamente lo è, anche se di un genere un po' diverso da Guerre Stellari, tuttavia non si può non accorgersi di come il tema sia connesso al pensiero di Lewis. Un uomo, trascinato a forza in una incredibile impresa di ricerca scientifica, via via vi si appassiona, sino a diventarne il più sincero partecipante e difensore, contro la malvagia determinazione di chi l'ha concepita.

«E" la lotta», è stato scritto, «del Bene contro il Male», ma non credo che Lewis sarebbe d'accordo. Il Male ed il Bene, troppo concreti per essere due «principi» che si combattono, sono le due possibilità, le due direzioni che il cammino dell'uomo può prendere. L'una lo conduce verso il compimento di sé, l'altra lo annichilisce.

«Noi» scriveva Berlicche, «possiamo strascinare i nostri ammalati con una continua tentazione perché noi li destiniamo solo alla tavola, e maggiori saranno le interferenze con la loro volontà meglio sarà. Egli non può «tentare» alla virtù come noi tentiamo al vizio. Egli vuole che essi imparino a camminare, e perciò deve tirar via la mano; e purché ci sia veramente la volontà di camminare, Egli sembra gradire perfino il loro inciampare».

L'abolizione dell'uomo, una breve riflessione del 1943 sul sistema ed il processo educativo nella società moderna ed Il brindisi di Berlicche, che contiene oltre al discorso pronunciato dal Sottosegretario infernale alla cena annuale al College dei giovani tentatori, alcuni scritti e discorsi di Lewis su temi vari, queste sono le due rimanenti traduzioni italiane della ricchissima produzione letteraria di Lewis. Rimangono ancora non tradotti i suoi saggi di critica letteraria, alcuni importanti studi «teologici» come The problem of pain (Il problema del dolore, del 1940), The four loves (I quattro amori, del 1960), Christian reftections (pubblicato postumo nel 1967).

E dal momento che noi non possiamo
imbrogliare l'intera razza umana per
tutta la lunghezza del tempo, ci è di
suprema importanza tagliare ogni generazione
fuori da tutte le altre.
Berlicche

Dai critici il nome di Lewis è stato spesso accostato a quello di G.K. Chesterton, molti lo definiscono «chestertoniano» e riconoscono tra le sue doti principali quella di essere un apologista capace di creare con facilità analogie ed immagini legate all'esperienza quotidiana per «dimostrare le più alte verità». Non per tutti però l'accostamento a Chesterton ha un significato positivo, qualcuno lo giudica troppo «dogmatista» o scrive di provare per il suo stile una sorta di irritazione o di esasperazione.

Ritengo che il riferimento a Chesterton non sia sbagliato. Molte cose li accomunano anche nella loro esperienza personale.

Ricordo, per esempio, che nella sua autobiografia, Chesterton scrive che il primo ricordo preciso che ha della sua infanzia è un teatrino, o meglio lo scenario di un teatrino giocattolo, che raffigurava, mi sembra, il cortile di un castello con un ponte levatoio. Chesterton scrive che da allora il suo desiderio fu uno solo, quello di attraversare quel ponte, fino a che qualcuno non lo attraversò per andare da lui.

Anche Chesterton si «convertì» alla fede da adulto ed anche per lui essa fu un inizio, che trovò subito espressione nella sua opera (l'Ortodossia) e segnò il punto di riferimento di tutta la sua esistenza.

Lewis lesse ed amò Chesterton, secondo nelle sue preferenze solo a George McDonald. Ma credo che ci sia una differenza tra queste due grandi figure.

Chesterton è lo scrittore della razionalità della fede, è il «defensor fidei» che padroneggiandone le ragioni si concede il paradosso. Lewis è lo scrittore del senso religioso, cioè della passione che l'uomo ha per l'infinito e della sua dipendenza da esso.