ritratto di Van der Meersch

Van der Meersch: Corpi e anime

recensione

Titolo originale: Corps et âmes, tr.it. BUR, Milano 1997.

Un romanzo bello, duro, denso di realtà. Letterariamente l'opera è gradevole. Il romanzo prende le mossé con dei ritmi piuttosto lenti, quasi dipingendo quadretti staticamente giustapposti, e viene man mano acquistando una cadenza unitaria e una urgenza narrativa avvincente.

Nello scenario della professione medica (presentato in tutte le sue sfaccettature, dalla ricerca all'ospedale alla medicina di famiglia) si contrappongono sostanzialmente due modi di intendere la vita. Uno, quello ad esempio di Jean Doutreval e di Olivier Guerran, punta sulla apparenza, sul consenso del “mondo”, sulla abilità a ingannare e a tramare; l'altro, quello del dott. Domberlé e poi di Michel Doutreval, punta su una verità, realmente benefica ma poco apprezzata da chi ha il potere in questo mondo, una verità che fatica a farsi strada, ma alla fine vince.

Il primo stile, che erige l'io a centro di tutto (agostinianamente si tratta dell' “amor sui usque ad contemptum Dei”) si corazza contro le esigenze profonde del cuore (si può vedere il discorso con cui Doutreval padre cerca, invano, di trattenere a sé il figlio, Michel, innamoratosi di una giovane tubercolotica abbandonata da tutti, pp. 161/64) e non esita a sacrificare le stessé vite degli altri, tanto dal punto di vista spirituale quanto da quello fisico. Così papà Doutreval tiene avvinta a sé l'ultimogenita Fabienne e ne manovra l'esistenza, salvo poi scandalizzarsi allorché la figlia tradirà le sue aspettative, rimanendo incinta ad opera del suo “amico” Guerran; così il medesimo Doutreval affida il parto cesareo della primogenita Marie alla malferma mano di Géraudin, chirurgo un tempo ammiratissimo, ma di ormai pericolante abilità operatoria, benché ancora, e questo è il punto, potentissimo nel mondo ospedaliero francese: Marie morirà durante il parto, proprio per una banale imperizia del chirurgo scelto dal padre. Ancora Doutreval non arretra di fronte all’evidentemente troppo alto costo umano della sua nuova cura per guarire dalla follia, la “curarizzazione”, di cui si è peraltro impropriamente attribuito tutto il merito, misconoscendo il prezioso contributo dell’assistente, Groix: all'altare della sua sfrenata ambizione sacrifica un ingente numero di vite, nascondendo al pubblico i risultati reali del suo metodo.


Il secondo stile, che solo progressivamente svela il suo fondamento religioso e cristiano, è incarnato magnificamente dal dott. Domberlé: questi ha trovato una cura per la tubercolosi, basata sul rafforzamento “naturale” delle difese immunitarie, che è finalmente efficace: ma nel mondo accademico e medico nessuno gli fa credito e prevale l'orgogliosa, aprioristica e interessata difesa di terapie incentrate sul sintomo, e incapaci di svellere il male alla radice. Qui il contrasto tra la civitas Dei, basata su una disarmata verità, e la civitas diaboli, costruita sulla menzogna e sulla apparenza, emerge in tutto il suo dramma: l'umanità, o almeno una parte “troppo” consistente di essa, preferisce essere ingannata e addirittura morire, piuttosto che rinunciare ai propri pregiudizi e aderire alla realtà e alla sua evidenza. Domberlé poggia tutta la sua fiducia in Dio, in Cristo e non si scandalizza che la gente non si volga più decisamente a lui, e al suo metodo, che i fatti provano essere efficace, ma tira dritto per la sua strada, al di là delle incomprensioni e delle ingratitudini. E Michel, che a lui deve la guarigione di Éveline, ragazza da lui conosciuta in ospedale e che tutti davano ormai per spacciata, da Domberlé impara non solo la terapia più efficace per guarire dalla TBC, ma un atteggiamento verso la professione medica e verso la vita.


Interessante è che i personaggi abbiano una storia: Michel Doutreval cambia. Ma alla fine cambia anche il vecchio Doutreval, suo padre, accortosi di quanto abbia basato la sua vita sull'idolo dell'io (pp. 517 sgg.). L'autore non lo dice, ma forse cambia anche Guerran, lasciato alla fine “libero” da un gesto in qualche modo eroico di Fabienne, che da lui aspettava un bambino, ma che capisce di non poterlo sottrarre al focolare domestico.


Efficace è in effetti la tematica del rapporto (oggettivamente adulterino) tra Olivier Guerran, avvocato e potente politico di Angers, colui a cui si rivolgono i più prestigiosi medici di tale città, come Jean Doutreval e Geraudin, per ottenerne favori, e la giovanissima Fabienne Doutreval. Questa, mandata dal padre a fare pratica a Parigi, alla clinica Epidauria, vi sperimenta dapprima con sconcertato disgusto, la miseria morale dell'umanità, ad esempio coi suoi tradimenti coniugali e la sua disinvolta arbitrarietà nel ricorso all'aborto, clandestino da mi fatto tollerato e protetto. Guerran è ricoverato in tale clinica in condizioni disperate, e lotta per diversi giorni tra la vita e la morte, di fatto trattato come sé fosse già morto dalla esosa ed egocentrica moglie, che pensa solo a strappargli un testamento a lei favorevole, e dagli stessi figli, sopratutto il maschio, Charles, ma non trovando nemmeno nella adorata figlia Michèlle un vero conforto. Solo Fabienne lo tratta umanamente, solo in lei egli può avere una reale consolazione. Quello che in quei giorni poteva sembrare un rapporto di compassione di una giovane donna verso un maturo personaggio abbandonato affettivamente dai suoi stessi familiari, si trasforma poi, in una vacanza che i due si trovano a fare (casualmente) insieme, una complicità sentimentale e un vero e proprio legame. Dapprima tutto sembra filare liscio, tra mille precauzioni, poi la moglie Julienne subodora il tradimento e riesca far precipitare le cose: tra le due Guerran sceglierebbe Fabienne, da cui scopre di aspettare un bambino. Ma poi è la stessa Fabienne ad accorgersi di quanto egoistica ella sia stata, contraddicendo la sua intenzione di dare finalmente a Guerran un amore totalmente disinteressato.

Quando Fabienne rivela al padre, che è coetaneo di Guerran, di aspettare da lui un figlio e di aver rifiutato di chiedere il divorzio di lui, egli va su tutte le furie e la scaccia. Ma poi, trovatosi solo capisce che tutta la sua vita è stata segnata dall'egoismo. E decide di prendere con sé Fabienne, abbandonando tutto.

valutazione

La tragica fine di un altro personaggio-chiave, Géraudin, suicidatosi allorché si accorge di non essere più il chirurgo ammirato da tutti che era un tempo, ma l'ombra di sé stesso, in balia della moglie tirannica, apre ad una dimensione essenziale del libro: la spietata durezza con cui l'autore raffigura la realtà. Preannunciata nella scena iniziale, che forse avrà impressionato più di un lettore, ambientata in un obitorio. Come pure lo si vede in molte scene di ordinaria vita ospedaliera e operatoria.

Il realismo dell’autore sembra in verità talora sfumare verso l’oleografia in alcuni passaggi relativi alla professione medica, di cui viene accentuata in modo francamente eccessivo una dimensione quasi messianica (il medico viene espressamente paragonato al sacerdote come uno che fa dono di sé per gli altri, assumendosi senza rancori tutte le piccolezze e le ingratitudini dei suoi simili). Qualche altra riserva si potrebbe avanzare laddove l’autore, alla fine del romanzo, mette in bocca ai personaggi positivi delle proposte politiche, diciamo così, oligarchiche, esprimendo una profonda sfiducia nella possibilità che la moltitudine possa andare oltre la seduzione dei demagoghi.

Si tratta comunque di piccole riserve che non intaccano la complessiva bellezza e forza del romanzo. Tra l’altro particolarmente profetica si    rivela proprio la parte conclusiva, che affronta il futuro della società.