Vincenzo Foppa
il baluginio del Mistero
Giuseppe Frangi
«Cristo salva la realtà affermando di essa ciò che è amabile, vale a dire ciò che è per te. E ciò che può essere per te è per chiunque altro. L’io ha come esistenza l’abbraccio a tutto ciò che veramente è. Tutto ciò che veramente è, è la negazione dell’apparenza come preludio al niente» (don Luigi Giussani).
Chi è Foppa
Trascorse gran parte della sua vita a Brescia. Che dal 3 marzo al 2 giugno 2002 gli dedica una grande mostra. La sua pittura non fu semplice realismo. Ma adesione, abbraccio della realtà. Anomalo, contro la cultura inattaccabile e uniformante del Rinascimento. Un linguaggio nuovo che con Caravaggio esploderà totalmente
lo Stendardo di Orzinuovi
Basta un volto per capire la poesia, così grande e così anomala, di Vincenzo Foppa. È il volto del san Sebastiano, dipinto sul retro dello Stendardo di Orzinuovi, opera estrema di questo artista bresciano, morto nel 1516. Un volto memorabile, dolce e indurito dalla vita; un volto impregnato di fatica e che a fatica emerge dalla trama della tela; un volto dalla voce roca, che si specchia, psicologicamente, in quei grigi padani con cui è stato dipinto. La luce densa che gli arriva da sinistra, accende appena la sua carnagione, color della terra. I lineamenti uniscono, non si sa come, un che di eroico e un che di contadino. Martirio di uno zappaterra, lo definì Roberto Longhi, con un’intuizione che era critica, culturale e anche antropologica.
Chi avrà l’occasione di vedere la mostra, che finalmente Brescia si appresta a dedicare a quello che senza dubbio è stato il più grande pittore della sua storia, si deve soffermare a lungo davanti a quest’immagine, uno dei più straordinari inni alla realtà che la pittura abbia mai innalzato. Lo Stendardo di Orzinuovi, dipinto da Foppa quasi novantenne per una roccaforte della bassa bresciana, come ex voto contro la peste, sarà l’atto finale della mostra, negli ambienti suggestivi di Santa Giulia; una mostra che si preannuncia indimenticabile per la passione con cui è stata realizzata, sotto la guida di Giovanni Agosti, e per la completezza delle opere presenti: mancheranno solo una tavola troppo delicata per essere trasportata da Londra e le vetrate del Duomo di Milano, realizzate su cartoni, del pittore bresciano.
Ma chi è Vincenzo Foppa? Giorgio Vasari, sdegnosamente, lo annoverava tra i barbari del nord; Bernard Berenson, che pur aveva due sue tavole nella collezione, lo riteneva un maestro provinciale. Fu, come al solito, Roberto Longhi il primo a capire che quello che veniva bollato come arcaismo era in realtà un modo, rivoluzionario e così avanti con i tempi, di assimilare le conquiste rinascimentali. In cosa consisteva questa novità? Longhi con efficacia ricorse a una metafora “oraria”. Se il Rinascimento cercava sempre l’ora assoluta, quella fuori dal tempo, il Foppa capovolse la prospettiva: cercava sempre un’ora precisa nel tempo (e analogamente, un luogo reale nello spazio). Per farlo era attento all’esattezza atmosferica delle luci e alla credibilità concreta del contesto.
Via d’uscita
In questo angolo di Lombardia, per mano di questo maestro così poco presentabile (trascorse anche un periodo in prigione, quando ottenne alcune commissioni in Liguria), in realtà si era prodotto uno scarto nella storia della pittura, destinato a far maturare la rivoluzione del Caravaggio. Foppa, infatti, non fu una zona franca aperta nell’egemonia culturale del Rinascimento, ma ne rappresentò, nei fatti, la più importante via di uscita. Spiegare che questo avvenne grazie al suo arroccarsi entro i confini di una cultura provinciale, paradossalmente non depotenzia affatto la portata di questa novità. La cultura inattaccabile e uniformante del Rinascimento non poteva essere vinta che da un’anomalia assoluta, da un assoluto imprevisto sbucato nei recinti così ben sorvegliati dai maître à penser dell’epoca. L’anomalia spuntò, appunto, a Brescia intorno al 1430, data probabile di nascita di “Magistro Vincentio”. Poco si sa di lui, anche se, a grandi linee, si può seguire la sua biografia tra Milano - dove nel 1465 affrescò le storie di san Pietro martire a Sant’Eustorgio su commissione di un banchiere fiorentino, Pigello Portinari -, Pavia e la Liguria. Ma nel 1489 Foppa ebbe l’occasione di diventare il pittore della sua città, chiamato ufficialmente dal Consiglio di Brescia, con tanto di stipendio fisso. Un fatto storico, che ai tempi aveva solo un precedente: quello di Giovanni Bellini, chiamato con analogo ruolo dal Senato di Venezia nel 1483.
Da quel momento in poi Foppa, per quasi trent'anni, non spostò il suo raggio d'azione da Brescia. Questa sua scelta di autorecludersi in un ambito così periferico rispetto alle grandi capitali dell’arte fu un fattore decisivo per fare attecchire, proprio su quella terra, una tradizione figurativa così radicalmente nuova. Che alla lunga si dimostrerà tutto meno che locale, perché il genio di Caravaggio ne farà la lingua nuova con cui tutta la pittura europea avrebbe dovuto confrontarsi.
Nuova tenerezza
Certamente non era questa la preoccupazione che aveva mosso Foppa, ma c’è da scommettere che in lui fosse piena la coscienza della propria diversità. Era la coscienza del dialetto che sfidava la lingua, come scrisse con passione Giovanni Testori. Il dialetto, che non era una lingua minore, bensì una lingua in grado di ristabilire un rapporto potente con la realtà, che la grande lingua accademica aveva invece completamente smarrito. Il passo da questo amore per la realtà a una nuova tenerezza, che pervadeva lo sguardo e la pittura di Foppa, è quasi una conseguenza naturale. A questo proposito sono stupende le parole con cui Testori rilesse il capolavoro del pittore bresciano conservato alla Pinacoteca di Brera: «Io ricordo come nelle visite che, ragazzo, facevo alla Pinacoteca di Brera, vicino a tant’altre pale, il Polittico di Vincenzo Foppa mi desse, e non sapevo spiegarmi come, né d’altronde pago del calore che me ne derivava insistevo nel chiedermelo, l’impressione di un grande armadio domestico, finito nelle sale d’un palazzo per le strane combinazioni di qualche trasloco o di qualche testamento; un po’ insomma, quello che dalle nostre parti si chiama “el vestè”. Rispetto quello delle opere circonvicine, l’oro dei suoi scomparti mi sembrava, lo ricordo bene, tanto meno lussuoso e tanto più vero da confondersi col colore e la sostanza stessa d’un legno stagionato, che avesse custodito per generazioni e generazioni i corredi di chissà quante spose, la biancheria di chissà quanti parenti e tutto lo strano armamentario d’oggetti e cose che piano piano, col tempo, in quegli armadi va a finire…» (peccato che una pagina così non sia nemmeno menzionata nelle tre pagine di bibliografia del catalogo ufficiale, da poco pubblicato, della pinacoteca milanese, come ha ricordato con amarezza e sconcerto Giovanni Agosti: sintomo di Milano che dimentica il meglio di se stessa).
il Cézanne del post-Rinascimento
Non è semplicemente realismo quello di Foppa; è molto di più. È adesione alla realtà, è abbraccio alla realtà. La sua è una pittura che si china sulle cose, che non pretende nulla da loro, che si commuove e si intenerisce per i limiti, per le ombre, per i balbettii che incontra davanti a sé. In questo suo chinarsi Foppa coglie sempre il baluginio del Mistero, quella consistenza ultima della realtà, che nella sua apparenza di imperfezione è segno di un infinito. Ma quell’apparenza, con tutto il gravame di fatiche e di peccati che porta con sé, è il baluardo al nulla. Così, mentre a Firenze proprio il baratro del nulla trascinava con sé i titani del tardo Rinascimento, nella provincia lombarda un umile maestro, di nome Vincenzo Foppa, riportava la storia della pittura sul punto di un nuovo inizio. Una cosa simile a quella che sarebbe accaduta, 400 anni dopo, a Aix-en-Provence, grazie a un pittore rivoluzionario, scontroso e solitario, attaccato al cattolicesimo con la semplicità di un contadino. Forse è arrivato il momento di riconoscere che Foppa è il Cézanne del post-Rinascimento.
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