Arthur Rimbaud
Giuseppe Frangi e Silvano Petrosino
(traduzione delle poesie di Antonio Galli)
La sua vita
« ... fiero di non avere né paese, né amici... »
Era nato a Charleville, una cittadina delle Ardenne adagiata sulle sponde della Mosa; a Charleville aveva anche trascorso senza troppi patemi la propria infanzia nonostante sin dal 1860 il padre si fosse allontanato da casa e avesse così lasciato l'intero destino della famiglia nelle ferme e energiche mani della moglie Vitalie; a scuola poi, da autentico « enfant prodige », aveva iniziato a dieci anni a comporre esametri latini per trovarsi a quindici coperto di riconoscimenti e di premi.
Che quella sua precoce e straordinaria intelligenza gli attirasse la diffidenza e l'antipatia di molti non lo preoccupava più di tanto: Arthur Rimbaud aveva infatti dalla sua parte anche persone, come il suo professore di retorica Izambard, disposte a capirlo e ad incoraggiarlo e sapeva soprattutto di poter contare sul proprio spirito di indipendenza per tagliare al momento debito i ponti con la sua cittadina natale. Del resto pur così giovane, in cuor suo aveva già emesso un'inappellabile sentenza nei confronti del piccolo mondo borghese dell'«atroce Charlestown, la ville superio-rement idiote entre les petites villes de province »; e di quella sentenza avrebbe dovuto fornire una prima formulazione fuggendo di casa, alla volta di Parigi, non ancora sedicenne nell'agosto 1870.
Scriveva intanto e inviando il 24 maggio di quello stesso anno tre sue poesie, tra cui la meravigliosa Ophélie, a Théodore de Banville direttore del Parnasse contemporain fremeva nell'attesa che qualche superiore evento piegasse finalmente il suo destino verso la grande capitale francese.
Di sicuro gli echi della Comune nella primavera successiva non potevano toccare solo di striscio il giovane ribelle di Charleville: s'è anzi parlato, o meglio ne ha parlato lui stesso in una lettera, d'un suo proposito e d'un suo desiderio d'arruolarsi tra gli insorti; nessuno tuttavia è in grado oggi d'affermare con certezza cosa abbia veramente fatto di quel suo desiderio e di quel suo proposito: si può solo contare su di un vuoto di notizie tra il 17 aprile e il 13 maggio, su testimonianze verbali che l'avrebbero voluto in quei giorni a Parigi e, soprattutto, su d'una poesia inviata a Izambard, poesia che sin dal titolo, (Le coeur supplicié o Le coeur volé) faceva esplicito, sconsolato riferimento a violenze subite forse proprio tra i battaglioni comunardi. S'era trattato insomma d'una adesione emotiva che per quanto appassionata, non risultava certo tale, comunque, da ricondurre la sete d'assoluto di Rimbaud dentro i limiti ideologici della Comune: anzi, quasi per disperdere ogni dubbio al proposito, il 15 di quel mese di maggio datava la sua lettera programmatica, la celebre lettera del veggente (« Il Poeta si fa veggente per mezzo d'un lungo, immenso ragionato sregolarsi di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia; cerca lui stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni per conservarne soltanto le quintessenze », affermava tra l'altro su quei fogli, scardinando così per principio ogni ipotesi storica e politica). Nella successiva estate, l'ultima passata nella pace di Charleville, il cammino poetico di Rimbaud toccava intanto il vertice: a luglio stendeva Les Premières Communions, una lunga poesia dettata dal suo furore anticattolico, mentre a settembre risaliva il suo capolavoro, il celebre Bateau Ivre; quel mese di settembre doveva comunque risultar decisivo anche per un altro motivo: aveva infatti inviato per far conoscere i propri lavori, una lettera a Paul Verlaine, uno dei più famosi poeti francesi di quei giorni, e Verlaine, profeticamente colpito da quei versi, gli aveva subito risposto rivolgendogli questo felice invito: « Vieni cara e grande anima, vi chiamiamo, vi aspettiamo».
Rimbaud partì senza punto esitare alla volta di Parigi: qui per nulla intimorito dai grandi nomi presso i quali l'autorità di Verlaine l'aveva introdotto, riuscì col suo comportamento rissoso e insolente a inimicarseli tutti nel breve volgere d'un paio di mesi; i tempi della sua permanenza parigina bruciavano così con imprevista rapidità e la sua insofferenza e il suo disprezzo nei confronti di ogni ambiente culturale e letterario, compreso quello più libero e spregiudicato dei poeti parnassiani, toccava presto il limite di guardia: Verlaine, infatti, nel febbraio successivo già non era più in grado di trovar qualcuno disposto ad ospitarlo e Rimbaud stesso decise, tra la sorpresa generale, di levare il disturbo e di tornare a Charleville. Nulla meglio delle parole del più anziano poeta ci raccontano del Rimbaud di quei mesi parigini, del suo viso d'angelo in esilio, dei suoi capelli castani arruffati, del suo accento contadino troppo rapidamente perduto, delle sue mani che, invece, crescendo dovevano assomigliare più a quelle di un contadino che a quelle d'un poeta; e nessuno del resto più di Verlaine doveva restargli ostinatamente fedele, fedele al punto di incrinare i suoi rapporti con la famiglia e la moglie pur di seguire le folli intemperanze del suo giovane amico; fedele nonostante il suo carattere in genere lo mantenesse in un'eterna indecisione, in uno stato di estenuata incertezza. Così se toccava a Rimbaud di rifarsi vivo per un nuovo e del tutto appartato soggiorno a Parigi, nel luglio '72 era Verlaine a seguirlo a Bruxelles e poi a Londra.
Qui Rimbaud, messa in second'ordine la poesia, s'era buttato in un'opera in prosa, la « relation d'un combat spiritual » da cui, come lui stesso s'era trovato a confessare, sarebbe dipeso il suo destino: si trattava della celebre Une saison en enfer (Una stagione in inferno), la quale però, per giungere a totale compimento, doveva attendere che anche l'amicizia con Verlaine si consumasse definitivamente; doveva cioè attendere che nell'estate del '73, il poeta parigino, scosso dalle continue assillanti minacce della moglie e della famiglia ed esasperato dall'atteggiamento via via più provocatorio e insolente del suo giovane amico, decidesse improvvisamente di lasciare Londra. Solo allora Rimbaud tentava di salvare la situazione prima rincorrendo Verlaine sin sul molo, poi scrivendogli una straordinaria e appassionatissima lettera (Ritorna, ritorna, amico mio, caro, unico amico, ritorna... Ricominceremo a vivere qui, coraggiosamente, pazientemente... »); in verità, lui stesso sentiva d'aver fatto terreno bruciato anche di quell'esperienza e di dover quindi lasciar che la vicenda rotolasse verso il suo drammatico, infuocato epilogo di Bruxelles (Verlaine sparava al suo giovane amico e veniva condannato a due anni di carcere). La Saison poteva così giungere a conclusione nell'agosto del '73: in quella data Rimbaud consegnava infatti il manoscritto ad un editore di Bruxelles; mai era prima accaduto che il giovane di Charleville si fosse preso premura di mandare alle stampe un proprio testo e il fatto che se ne incaricasse ora si spiega con l'importanza da lui assegnata a quell'opera che già sentiva come testamento poetico e spirituale.
Infatti nel frattempo un'altra stagione, la sua stagione creativa, stava arrivando a conclusione: non ancora ventenne, Rimbaud s'apprestava ad abbandonare carta e matita per intraprendere lui, il grande cantore del « Battello ebbro », un faticoso quanto vano e interminabile peregrinaggio.
Aveva cominciato nel 1875 col toccare Stoccarda e scendendo quindi nell'aprile a Milano dove, malato e indebolito, veniva raccolto e ospitato per qualche giorno da una vedova; dei viaggi dei due anni successivi non s'hanno sufficienti notizie: solo si sa che di tanto in tanto faceva comparsa a Charleville per aiutare i suoi nella mietitura, che nel '78 s'era recato a Cipro per dirigere i lavori di una cava di pietra, che nel '79 aveva invece raggiunto l'Oriente. Viaggiava per lo più a piedi (memorabile ad esempio risulta il racconto lasciatoci in una lettera, della sua traversata invernale del San Gottardo tra la bufera e montagne di neve); viaggiava, altrimenti, con mezzi di fortuna e, quasi che quell'inestinguibile « soif », quella « soif » di mistico senza pace che l'aveva trascinato nella sua breve stagione poetica, anziché estinguersi, avesse solo mutato di modalità e forme, non si concedeva mai tregua, mai il tempo di un respiro. Sembrava quasi dovesse espiare una colpa nei confronti dell'esistenza e della vita o che, addirittura, una volontà superiore avesse fatto del suo destino la strada per consegnare al mondo un fondamentale messaggio; sulla sua stagione letteraria comunque aveva fatto scendere la cortina del più rigoroso silenzio, tanto che Paul Verlaine, domandando nel '75 ad un amico comune notizie riguardo alle ultime fatiche di Rimbaud, così s'era sentito rispondere: « I suoi versi? E' molto tempo che la sua vena tace; suppongo persino che non si ricordi assolutamente più d'averne scritti! ».
Nel frattempo, tra tanto non più ricostruibile peregrinare, Rimbaud intraprendeva, nel marzo 1880, il viaggio decisivo; decisivo non perché contasse, al contrario dei precedenti, su d'una più precisa meta, su d'una più assennata motivazione, ma solo perché destinandolo in continente africano, l'avrebbe tenuto lontano dalla casa, dalla Francia e dall'Europa sin sulla soglia della morte.
Comunque neppure l'essere approdato sulle sponde d'un altro continente serviva ad allentare la sua inquietudine; anzi, la sua vita africana si costellava di imprese incredibili, di viaggi assurdi e massacranti, tra deserti, altopiani e catene selvagge di monti; intratteneva corrispondenza coi suoi familiari ai quali confidava le sue segrete speranze e soprattutto le sue amarezze per una vita che non riusciva ad avere un capo e una coda. (« A che servono tutte queste peregrinazioni, e questi strapazzi, e queste avventure presso popoli strani, e queste lingue di cui ci si riempie la memoria, e questi affanni senza nome se non mi è concesso riposarmi un giorno? » s'era domandato sconsolato in una lettera del maggio 1883).
Quasi braccato da un atroce destino (« Ma adesso io sono condannato ad errare, legato ad un'impresa lontana... », inseguito da un'ansia perenne non riusciva mai a concedersi ad attività meno rischiose e più redditizie; camminava, camminava sempre compiendo tragitti inimmaginabili, imbastendo trame commerciali che ogni volta gli si disfavano tra le mani; progettava di mettere da parte il denaro che gli sarebbe bastato per vivere di rendita qualora fosse rientrato in Europa ed invece si ritrovava sempre creditori ed avvoltoi alle calcagna. Nel 1891 lo colse un cancro al ginocchio che lo costringeva, con un drammatico avventuroso viaggio, al rientro in patria. Sbarcato a Marsiglia il 20 maggio, i medici dell'ospedale del « Conception » decidevano d'amputargli immediatamente la gamba; l'intervento non servirà però a bloccare il male e a Rimbaud non restava che consumare gli ultimi mesi di vita tra atroci sofferenze in un letto di quell'ospedale marsigliese, assistito con amorevole e infinita pazienza dalla sorella Isabelle; la quale restava così l'unica e quindi, secondo alcuni, improbabile testimone della conversione del fratello, il 25 ottobre, quindici giorni prima della morte.
La sua opera
« Scrivevo silenzi, notti, notavo l'inesprimibile ».
Un critico dell'opera di Rimbaud osserva: « Alla radice della vita - e della poesia - di Rimbaud, c'è qualcosa che può definirsi una crisi d'adattamento, e ne costituisce, insieme, il segreto e la chiave. Sulle soglie dell'adolescenza... deve essersi compiuta, per lui, una frattura insanabile » '. Non si può certo che partire da questo mancato adattamento. All'interno di una esperienza poetica così intensamente vissuta, e così brevemente, come quella di Rimbaud, risalire a questo inizio non significa innanzitutto attenersi ad un corretto criterio cronologico. Un tale criterio stenta ad adattarsi ad un'esistenza come questa, in cui il tempo sembra abbia scelto la dimensione verticale dell'intensità. Da parte nostra, impegnarci con le prime poesie di Rimbaud prima che significare una risalita all'origine cronologica della vita del poeta, significa cogliere in questo inizio una delle tappe fondamentali e costitutive di tutto il suo itinerario poetico. E' così indicata anche una impostazione di metodo: nell'impossibilità di dire tutto, andremo alla ricerca di quelle che potremmo chiamare le categorie base della poesia di Rimbaud, ed in questa ricerca ci potrà capitare di non sottolineare a sufficienza il susseguirsi temporale delle liriche che ora c'interessano. Diciamo questo per avere dalla nostra almeno il vantaggio, per alcuni forse esilissimo, della consapevolezza di una scelta. In questo senso, risalire al primo Rimbaud significa, secondo noi, aprirsi alla possibilità del raggiungimento del cuore del suo stesso gesto poetico. Qui, dove la dialettica poesia-vita tende ad una identità, l'adattamento non avvenuto e non voluto di cui più sopra accennavamo, è poesia. A che cosa e a chi il « ribelle » Rimbaud diciassettenne non si adatta? Ma preferiamo affrontare il problema da un altro punto di vista, e questo perché ogni violento rifiuto è, nella tristezza di una vita negativa, l'annuncio gridato di un orizzonte lontano, forse lontanissimo, positivo. Perché anche la bestemmia può essere preghiera. Allora, in forza di quale gusto-energia il gesto ribelle di Rimbaud può costituirsi? Quale coscienza rende possibile questa coscienza: « Non posso più, o onde, bagnato dai vostri languori, / rapir la scia ai legni che portano cotoni, / né traversar l'orgoglio delle bandiere e delle fiamme, / né nuotar sotto gli occhi orribili dei pontoni » (Il battello ebbro)?
Si tratta ora di leggere le poesie di Rimbaud scritte tra il 1870 e 1871. Queste poesie danzano. Il gusto della vita che in esse si esprime, salta agli occhi. Il gusto della carne che è gusto della vita. Questo è forse il primo centro tematico: l'energia del sentirsi vivo, la sua poesia, viene qui inizialmente espressa come eros. Nell'eros, ben al di là di ogni riduzione sessuale, Rimbaud ritrova il sentimento del vivere. Soffermandosi con la vibrazione, cercando di penetrare il fremere del vivo, egli ci dona alcune delle più liberanti e spaziose immagini della sua poesia. In esse ci si sente rinfrescati. « ... // - Io seguo, sbracato come uno studente, / sotto i verdi castani le vispe ragazzine: / esse ben lo sanno e volgono ridendo / verso di me gli occhi riboccanti di cose indiscrete. // Non dico parola: guardo senza posa / la carne dei loro candidi colli frangiati di ciocche folli: / indago, sotto il corsetto e i delicati abbigliamenti, / il dorso divino, scendendo per la curva delle spalle. // In breve ho snidato lo stivaletto, la calza... / Ricostruisco i corpi, arso da bella febbre. / ... // » (Al concerto). Intorno a questa stessa tematica, per non cadere in una facile unilateralità, vorremmo anche ricordare: « Le sere azzurre d'estate andrò per i sentieri / punzecchiato dai grani, a calpestare l'erbetta: / assorto, ne sentirò la freschezza ai miei piedi. / Lascerò che il vento bagni la mia testa nuda. // Non parlerò, non penserò a nulla: ma l'amore infinito mi salirà nell'anima, / e s andrò lontano, assai lontano, come uno zingaro, / attraverso la Natura - felice come con una donna. » (Sensazione), ed anche: « ... // Beato, allungai le gambe sotto il tavolo / verde; contemplai i motivi assai ingenui / della tappezzeria. E fu un momento adorabile quando la fante dalle poppe enormi, dagli occhi briosi // (quella, non sarà un bacio a spaventarla!) / mi portò, ridanciana, le tartine al burro / e il prosciutto tiepido in un piatto a colori, prosciutto roseo e bianco profumato da uno spicchio / d'aglio, e mi riempì il bicchiere immenso, con la schiuma / dorata da un raggio tardivo di sole. // » (Al « Cabaret Vert »). Sentirsi vivere, questo è stupendo, dice Rimbaud, la donna, l'erba, l'aglio. Accorgersi del colore del prosciutto non è certo cosa da poco. In questa energia che è la vita ci si accorge del colore e dello spessore: « // Sole, focolare di tenerezza e di vita, / versa il bruciante amore alla terra estasiata. / E stando distesi sulla valle, si sente / che la terra è vergine e trabocca di sangue; che il suo immenso seno sollevato da un'anima è d'amore come Dio, di carne come la donna, e che racchiude, turgido di linfe e di raggi, / il grande brulichio di tutti gli embrioni. / E tutto cresce e tutto sale. // ... quando, ritto nella pianura, egli ascoltava d'intorno / la vivente Natura rispondere al suo richiamo; / quando gli alberi muti, cullando l'uccello canoro, / la terra, cullando l'uomo, e tutto l'azzurro oceano / e tutti gli animali amavano, amavano in Dio // ... // » (Sole e Carne). Amore come unità, comunionalità. Amore come energia della comunionalità. La verità dell'amore è qui riconosciuta nell'essere slancio alla vita, al respiro. A questo livello la poesia di Rimbaud possiede una forza ed una compostezza straordinaria. Anche là dove diviene frivola e maliziosa (Sognato per l'inverno), essa non perde la vitalità. Frivola e maliziosa come un gioco, ma come questo, quando è veramente tale, serio e vitale.
All'interno di tale sentimento della carne-vita, la stessa morte, pur acutamente avvertita, sembra dover soccombere. Questa assume o l'aspetto ultimamente energico e burlesco del macabro, o quello delicato e trattenuto di un sonno: « Sulla mera forca, moncherino amabile, / danzano danzano i paladini, / i magri paladini del diavolo, / gli scheletri di Saladini. / / Messer Belzebù tira per la cravatta / i suoi fantoccetti neri che fanno smorfie nel cielo / e picchiandoli in fronte con una suola di ciabatta / li fa danzare danzare ai suoni di una vecchia pastorale. // Urrà, gai ballerini che più non avete pancia! / Si può capriolare, il palco è così lungo! / Hop, non si sappia più se è battagia o danza! / Belzebù furiosamente raschia i suoi violini. // » (Ballo degli impiccati); e poi la discretissima e calibrata « L'addormentato nella valle »: « E' un nido di verzura dove canta un torrente / follemente agganciando all'erbe brandelli / d'argento, dove il sole dalla montagna fiera / brilla: è una vallatella che di raggi spumeggia. // Un giovine soldato, bocca aperta, testa nuda, / nuca immersa nel fresco crescione azzurro, / dorme: è steso nell'erba, sotto la nuvola, / pallido nel suo letto verde ove piove la luce. // Coi piedi nei giaggioli, dorme. Sorridente come / sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno. / Cullalo caldamente, Natura: ha freddo. // I profumi non fanno fremere le sue nari; / dorme nel sole, con la mano sul petto; / tranquillo. Ha due fori rossi nel fianco destro. //» La morte non è qui contro la vita, è interruzione, parentesi, momento della vita stessa. Un brivido, ma non corruzione. Non offende la vita, rimane composta. Una limpida contraddizione.
Questo primo momento della poesia di Rim-baud racchiude quella percezione della vita che lo seguirà e perseguiterà per il resto della sua vita. Vita come eros, carne e colore, come, usando il termine che queste prime poesie hanno ricondotto alla sua più segreta e struggente potenza, materialità. « O splendore della carne! o splendore ideale! » (Sole e carne). La grande possibilità che è la vita, intravista da Rimbaud, genialmente intravista, violentemente e liberamente intravista al di là di ogni ottuso moralismo, rimarrà un pungolo insuperabile che, nella mancanza della grande Compagnia, stravolgerà nell'autore tutta la sua esistenza, rendendogli nauseante e insopportabile l'intera realtà intorno. Il destino è qui già segnato. La brevità dell'esperienza poetica di Rimbaud ne è testimone. Gli Angeli sanno subito e da sempre.
L'impossibile strada
D'altro di questa consapevolezza cosa resta da fare? L'ulteriore passaggio ha, nella vita di Rimbaud, quasi una necessità logica. E' la ribellione. (Cfr. I poeti di sette anni, vv. 1-16).
Che Rimbaud abbia percorso tutta l'Europa a piedi non è un caso. « ... // mio albergo era quello dell'Orsa / Le mie stelle facevano in cielo un soave fru-fru / ... // » (Zingaresca). C'è chi ha parlato di una malattia. E' l'impossibilità del luogo chiuso, degli spazi circolari, della misura calibrata, della previsione rassicurante. « ... Ma io, Signore! Ecco, il mio spirito vola / dietro i deli ghiacciati di rosso, / sotto i nembi celesti che corrono e volano / su cento Sologne lunghe come una strada ferrata. / ... // » (Michele e Cristina, 1872).
E' la ribellione contro ciò che arresta il vigore e lo mortifica, contro la mediocrità borghese angustamente chiusa su di sé nell'orizzonte possessivo, contro il clericalismo soffocante delle buie sacrestie. « Sulla piazza divina in meschine aiuole erbose / square, dove tutto è corretto, alberi e fiori, / lutti i bolsi borghesi strozzati dai calori / portano, il giovedì sera, le loro scemenze gelose// ... Benestanti con occhiolino sottolineano tutte le stecche: / i grossi burocrati tronfi trascinano le loro grosse signore, / ... // Schiacciando sulla panca la rotondila dei reni, / un borghese dai bottoni chiari, epa fiamminga, / assapora la pipa da cui ciuffetti di tabacco / traboccano (roba di contrabbando, capite). // ... // » (Al concerto). Le parole si richiamano e scandiscono il tempo: « corretto », « bolsi », « strozzati », « tronfi », « grosse signore », « rotondità dei reni ». Il richiamo a quanto più sopra dicevamo è limpido: il borghese ha trasfigurato la carne obbligandola ad una grassa staticità. La dimensione di questa carne neutralizzata è quella orizzontale del seduto. Descrivendo i bibliotecari: « Neri di natte, butterati, con occhi cerchiati d'anelli / verdi, le gonfie dita retratte sui femori, / incrostato il sincipite di ruvidezze vaghe / come le infiorescenze-lebbrose dei vecchi muri, // ... // Questi vecchi hanno sempre fatto treccia con le sedie, / ... // - Oh, non li fate alzare: è un naufragio... / Sorgono, brontolando come gatti schiaffeggiati, / aprendo lentamente le scapole, oh rabbia! / I loro calzoni sbuffano sulle reni gonfiate. // E li sentite picchiar le teste calve / contro i muri cupi, pestando pestando i piedi storti/ ... // » (I seduti).
«.. la carne dei loro candidi colli frangiati di ciocche folli » è stata trasformata in quella « delle reni rigonfie », e alla luce dei colori de L'addormentato della valle si è sostituito il verde putrefatto degli anelli intorno agli occhi. Offesa contro la materialità ed il colore. La borghesia, termine con una profondità semantica ben al di là della determinata classe sociale, è, per Rimbaud, la portatrice di questa offesa.
Tuttavia, nella palude del possesso borghese una brezza increspa la corretta superfice. Il movimento e la novità non potevano sfuggire all'occhio attento di Rimbaud. Il movimento e la novità che costituiscono il proletariato. « Jeanne-Marie ha mani forti, / mani scure che l'estate abbronzò, / mani pallide come mani morte. / - Son forse mani di Juana? // ... // Son mani che piegano schiene, / mani che non fanno mai male, I più fatali che macchine, / più forti di un cavallo! Il Agitati come farmaci, / scuotendo tutti i suoi fremiti, / la loro carne canta Marsigliesi / e mai gli Eleison! // Saprebbero stringervi il collo, I o maledonne, stritolarvi le mani, / o aristocratiche, le vostre mani infami / piene di bianchi e di carminii. // Lo splendore di queste mani amorose / fa girar la testa alle pecore! / ... // (Le mani di Jeanne-Marie). Questo terna è una declinazione della dinamica che abbiamo sottolineato nella prima parte: Rimbaud vede nel proletariato quella energia vitale capace di scuotere, ma solo scuotere, la tranquillità borghese. I tempi erano quelli della Comune di Parigi e la suggestione che questo clima doveva avere per il poeta non è certo difficile da comprendere. Ma è appunto una suggestione. La parola è giusta perché segna ad un tempo lo slancio della speranza e la sua fragilità. Come vedremo le strade che seguirà Rimbaud non saranno quelle della lotta e dell'impegno politico. Anche in esse il poeta si ritroverà alla fine soffocato. La sensibilità di Rimbaud è vicina alla politica in quanto rivolta, più che alla rivolta in quanto politica. Egli, è stato osservato, non sarà un operaio dell'avvenire.
La borghesia è portatrice dell'offesa contro la carne, ma non la sola. La forza trasgressiva del poeta agisce anche nei confronti del clericalismo. Scegliamo questo termine non a caso. Ini-ziamo a intravvedere ciò che potremmo chiamare una contraffazione culturale, vale a dire quella che ha identificato clericale con religioso. In questa identità la Chiesa è solo sacrestia, e per di più solo aristocratica, e Cristo è solo moralista. Come vedremo Rimbaud ha acutamente tratto le conclusioni da una tale impostazione. Il meccanismo è lo stesso di quello messo in moto nei confronti della borghesia. « Stabbiati tra i banchi di quercia, negli angoli della chiesa / fetidamente intepiditi dai loro respiri, le pupille sgranate / verso il coro grondante d'arie la cantoria / dai venti musi che sbraitano i cantici pii; // come un profumo di pane fiutando l'odore di cera, / felici, umiliati come cani battuti, / i Poveri al buon Dio, padrone e sire, / tendono i loro oremus ridicoli e cocciuti. // ... // E tutti, sbavando la fede accattona e stupida, / recitando l'interminabile lagna a Gesù / che sta assorto lassù, ingiallito dalla livida vetrata, / ... / e l'orazione s'infiora d'espressioni squisite, lei misticismi assumono toni incalzanti, / quando, dalle navate ove il sole si spegne, con pieghe di seta / banali, sorrisi verdi le Dame dei quartieri / distinti - oh, Gesù - le malate di fegato, / fan baciare le loro lunghe dita gialle alle acquasantiere. // » (I poveri in chiesa). Sorrisi verdi. Il Gesù ingiallito; ingiallito da una morte che non è più quella pulita e vitale dei « ... due fori rossi nel fianco destro », ma quella disgustosa della putrefazione.
Ne Le prime comunioni Rimbaud torna con violenza su questa immagine di un Cristo-solo-morto: « Davvero sono stupide queste chiese di villaggio I dove quindici brutti marmocchi che insudiciano i pilastri / ascoltano, biascicando le sacre cantilene / un grottesco uomo nero dalle scarpe che -fermentano // ... // Cristo! o Cristo, eterno ladro d'energie, / Dio che per duemila anni votasti al tuo pallore, / inchiodato al suolo, dall'onta e dalle cefalgie, / o riverse, le -fronti delle donne di dolore. // ». Quest'ultima strofa de Le prime comunioni possiede, all'interno della tematica che stiamo trattando, una centralità assoluta. La ribellione dunque è a quella caricatura di « Cristo » quale è stata orrendamente costruita da una cultura mondana secolare, vale a dire un Cristo morto ma non risorto, e quindi per Rimbaud « ladro di energie ».
Il mancato adattamento, di cui accennavamo iniziando questo lavoro, è nei confronti di una realtà che ha mortificato a tal punto l'esistenza da condurla alla putrefazione. L'energia rubata: è questa l'estrema consapevolezza che carica il gesto poetico di Rimbaud di una violenza impressionante. Si è osservato: « Verlaine con le sue formulazioni teoriche e con le sue realizzazioni poetiche ha teso al nuovo, ha operato approfondendo una ricerca che... risale a Baude-laire; ma Rimbaud ha operato una frattura non più colmabile col passato, ha realizzato la rivolta. Con lui si riparte da zero ». Eppure la passione di questa rivolta è così pulita e fine, azzurra, per servirci del colore glaciale usato spesso da Rimbaud, da contenere in questo « zero » l'altezza stessa dell'umanità di tutto il suo assoluto desiderio. In fondo, al Cristo-solo-morto la rivolta è d'obbligo. E' lo stesso mistero dell'uomo che brucia, consuma l'ingiallito Cristo ladro. Là dove l'uomo vive (la carne, i colori, la materia) non si può chiedere nulla di meno che un Dio che viva. In Le suore di carità tutto è chiaro: « ... // il giovane, di fronte alle brutture di questo mondo, / trasale nel suo cuore copiosamente inasprito / e, colmo di una ferita eterna e profonda, / si da a desiderare la sua suora di carità. / Ma, o Donna, mucchio di visceri, pietà dolce, / tu non sei mai la Suora di carità, giammai, / né sguardo nero, né ventre ove un'ombra rossa dorme, / né dita leggere, né seni splendidamente formati. // Cieca mai sveglia dalle immense pupille, / tutto il nostro amplesso non è che una domanda: / sei tu che a noi t'appendi, portatrice di mammelle: / noi ti culliamo, incantevole e grave Passione.//».
La sensibilità rinata
Con la ribellione si riparte da zero. Ma non si può percorrere le vecchie strade. Lo spessore della vita richiede una radicalità senza mezze misure. E' richiesta una coerenza senza limiti, quell'estrema coerenza che è la « follia ». Questa è la strada a cui si è obbligati non appena ci s'introduce nel vissuto. Per Rimbaud la « follia » è la risposta ad un'esigenza esistenziale: è l'avventura della totalità. (Cfr. I poeti di sette anni, vv. 55-64). Rimbaud accenna all'avventura della totalità, ci testimonia di questa nuova consapevolezza, già nel bellissimo finale di Ofelia (vv. 17-20; 29-32).
Al di là dell'umano ove si risponde con il fuoco al fuoco del « tremendo Infinito »: questa è la strada. Ofelia è stata spezzata dalla violenza di questo incontro, si è sciolta, ma Rimbaud raccoglie le forze, è convinto di raccoglierle, e tenta l'avventura. Questa fiducia nella propria forza si tradisce spesso nelle liriche del poeta, fino ad IX apparire provocatoria e sfrontata: «... // Poi, quando ho ringhìottito i miei sogni con cura, / mi volto - bevuti trenta o quaranta bicchieri di birra - / e mi raccolgo per sfogare l'acre bisogno: / mite come il Signore del cedro e degli issopi, / piscio verso i deli bruni, molto in alto e lontano, / con l'assenso dei grandi eliotropi. //» (Orazione della sera). Ma anche qui, al di là della intelligentissima autoironia, ciò che si comunica è uno slancio vitale.
Abbandonata la realtà quotidiana con la sua mediocrità ed oscurità, è necessario, secondo Rimbaud, farsi forti ed aprirsi ad una nuova sensibilità. Le ultime poesie del 1871 testimoniano lo sforzo di questo cambiamento di rotta. Crediamo che sia al loro livello che si giochi la possibilità per la comprensione di quella che sarà la poetica della Lettera del Veggente. In essa il descrittivismo pur freschissimo delle prime liriche si frantuma, e d'improvviso la struttura poetica viene animata da lampi di luce. Ci si solleva da terra. E' la rinascita del colore.
Il tema della luce e del colore è una struttura portante della poesia di Rimbaud e come abbiamo visto è presente fin dalle primissime esperienze poetiche, eppure qui esso assume un significato tutto particolare. Solmi dice bene quando osserva: « L'imbeversi della sensazione nel mondo primordiale, elementare, del colore è la prima istintiva via per cui Rimbaud giunge a rinfrescare la visione abitudinaria della cosa, restituendola all'indivisione originale dell'io con il mondo ». Stravolti e rifiutati i contorni delle cose quali li definisce l'occhio borghese e distratto, ciò che rimane è l'iridiscenza e l'animazione dell'essere e del colore. La riscoperta di questa profondità del colore è il ritorno a quella struttura elementare ed originale del reale rimasta nascosta allo sguardo indifferente e da questo negata. La vera struttura. Il colore è per Rimbaud l'inizio della rinascita del nuovo mondo, ne è il primo tempo. « La stella ha pianto rosea nel cuore delle tue orecchie, / l'infinito ti è rotolato bianco dalla nuca alle reni; / il mare s'è imperlato rosso sulle tue mammelle vermiglie, / e l'Uomo ha sanguinato nero al tuo fianco sovrano. » (La stella ha pianto rosea...). Ma l'esempio certamente più famoso di questa nuova sensibilità è costituito dalla poesia Vocali: « A nera, E bianca, I rossa, V verde, O azzurra: vocali, / io dirò un qualche giorno le vostre nascite latenti. / A, nero corsetto villoso delle mosche lucenti / che vòrticano intorno ai fetori crudeli, // golfi d'ombra; E, candori di vapori e di tende, / lance di ghiacciai fieri, re bianchi, brividi d'umbelle; / I, porpore, sangue sputato, riso di labbra belle / nella collera o nelle ebrezze penitenti; / U, cicli, vibrazioni divine dei mari viridescenti, / pace dei pascoli cosparsi d'animali, pace delle rughe / che l'alchimia incide sulle vaste fronti studiose; // O, suprema tromba piena di strani stridori, / silenzi traversati dai mondi e dagli angeli: / O, l'Omega, raggio violetto dei suoi occhi! // ».
Aprire, frantumare, spaccare, far esplodere le cose alla ricerca delle loro « ... nascite latenti ». L'accostamento fantastico delle vocali ai colori ha quasi la funzione magica di farci raggiungere quel mondo oltre il mondo, dentro il mondo, verità del mondo stesso. Rimbaud grazie a questa poesia c'invita ad abbandonare le parvenze, indica una strada nuova e ci apre a possibilità diverse prima quasi inimmaginabili. « Affidandosi interamente alla tecnica della sinestesia (cioè della fusione di sensazioni di diversa origine che sfocia in parte nel rapporto analogico) » il poeta ci porta al di là del valore logico delle parole verso una suggestione più ampia e comprensiva di questo stesso valore. La valorizzazione dell'elemento analogico, grazie all'intervento liberatorio del colore, attua in tal modo quella che potremmo chiamare una dilatazione delle cose e del reale logorato dall'usura « buia e triste » dell'atteggiamento quotidiano. L'importanza della lirica Vocali all'interno della poesia di Rimbaud, è stata giustamente sottolineata; essa indica una strada che troverà la sua formulazione teorica nella Lettera del Veggente, e la sua realizzazione poetica in « Una stagione all'Inferno » e nelle « Illuminazioni », una strada che è l'espressione più matura della poesia di Rimbaud.
Le ultime poesie del 1871, ed in particolare modo Vocali, sono un preannuncio della poetica di Rimbaud. Non a caso abbiamo insistito sul colore. Il titolo Illuminazioni, una delle espressioni più significative della poesia di Rimbaud, come Verlaine testimonia, e più critici sono d'accordo, sarebbe stato scelto dal poeta nel suo senso inglese di « coloured plates » (delle « Illuminazioni », prime prose poetiche nella letteratura europea, non tratteremo in questo breve lavoro, proprio perché la brevità c'impedisce anche solo di affrontare un materiale come questo così complesso e denso). A nostro avviso, l'intervento del colore è la prima mossa e realizzazione di quella poetica della Lettera del Veggente di cui qui riportiamo una sola espressione rimandando, per ora, un accenno più ampio: «... il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi... Egli giunge infatti all'« ignoto ». Poiché ha coltivato i la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! ». Il gesto del rischio radicale viene qui ricondotto alla sua finalità: giungere all'ignoto. Questo ignoto, sarebbe ipocrita negarlo, è il vero. Il ribelle si fa veggente. E' infatti la coscienza stessa della insopportabilità della finitezza (del limite delle cose e di se stesso) ad essere in tensione all'ignoto. Là dove la vita è vissuta (il poeta), là si genera, per usare la parola che ci pare più comprensiva ed esatta, la profezia. La carne è profezia. Per Rimbaud si tratta di ritornare all'evidenza di questa identità. Ritornarvi perché il mondo borghese l'ha dimenticato, ha rubato l'energia ed ucciso la carne, come abbiamo visto. Ritornarvi perché questo è il compito, la necessità. Smarrito il paradiso si deve risalire la china: il soggetto della risalita è il poeta, la sua modalità il « lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi ».
Prima di passare a il Battello ebbro, vorremmo solo accennare a quelle che potremmo chiamare delle pause di tenerezza. La presenza di questo atteggiamento all'interno del vortichio dei sensi fin qui descritto, non ci coglie di sorpresa.
Non è forse segno di gran vigore la capacità di tenerezza? Come accenneremo, questo tema della tenerezza è centrale per comprendere l'esistenza di Rimbaud, per comprendere certi avvenimenti della sua vita. Oltre le già ricordate Ofelia e L'addormentato della valle, riportiamo: « Oziosa giovinezza / a tutto asservita / per delicatezza / ho perduto la vita. / Ah, venga il tempo / che i cuori s'innamorino! // ... // » (Feste della pazienza).
« II Battello ebbro »
E' possibile forse affermare che tutto quanto abbiamo finora detto non è stato altro che la condizione per la comprensibilità di « II Battello ebbro ». In questa poesia tutto si ritrova e si realizza; tutto, anche ciò che « seguirà » cronologicamente, riconduce alla stringente logica di questa lirica, Le nostre parole debbono ora ridursi all'essenziale. Di che si tratta? Del Viaggio. Ma di quale viaggio? Verso l'Ignoto. Tale itinerario procede secondo tappe precise che è possibile ritrovare sotto la destrutturazione apparente del testo.
L'inizio è la partenza, segnata da un distacco brutale e drammatico, (« il deragliamento di tutti i sensi »), che immette nella splendida follia degli oceani furiosi (prime tre strofe). Immediatamente dopo, la necessaria purificazione sul filo danzante della leggerezza (strofe 4a e 5a). Le strofe dalla 6a alla 15a compresa « materializzano » il senso del viaggio. E' l'Apocalisse come trasfigu-frazione ultima del reale. Dapprima il Poema del Mare risuona nel ritmo e rielle immagini, delicato, pensoso e pacato, eppure fulgido: la notte, la morte, l'amore, le albe e i tramonti (i tempi del giorno e i tempi della vita umana, « drammi antichissimi »). Man mano tuttavia, la sinfonia acquista toni più abbaglianti fino al delirio d'immense fusioni di terre, acque, paludi, fiorì, piante e animali. Questa scansione ci suggerisce la seconda parola: è la Genesi. Un'Apocalisse che è una Genesi: il cerchio si chiude ritornando all'origine. II viaggio non è verso il vuoto, l'illusione, ma verso la profondità-verità dell'esistenza.
Il cammino dunque ha un'unica dirczione: significa, con l'impossibilità stessa di ogni adattamento, l'avventura della totalità (Apocalisse), Rimbaud lo testimonia in modo limpidissimo. Ma proprio perché estema questa avventura contemporaneamente si pone e rivela la sua auto-distruzione: con assoluta onestà intellettuale il poeta ne dichiara il fallimento e la supera, rovesciando i termini stessi della propria logica. Dapprima è la stanchezza ed il dolore (strofa 16a) e l'inquietudine ambigua degli uccelli chiassosi (strofa 17a); poi la percezione dell'esersi perduto (strofa 18a) e addirittura la furibonda autoironia, mentre la corsa diventa sempre più ansiosa ed ossessiva (strofe 19a e 20a): fino alla dichiarata nostalgia per l'Europa dai vecchi parapetti che riconosce il bisogno di una radice. Nella strofa 23a lo strazio esplode totale ed aperto, con la gridata speranza « Che la mia ciglia scoppi! Che vada in fondo al mare! ». Ed infine il capovolgimento: con serissima commovente consapevolezza Rimbaud, slegandosi dall'immagine autocreata di eroe dell'ignoto e degli oceani, si ritrova bimbo triste accoccolato accanto ad una pozzanghera. Ma questa non è una fine: il bimbo ricerca, affidando però sé stesso all'umiltà di una barchetta fragile farfalla. Forse il viaggio deve essere nuovo e diverso.
La sua eredità
«Chiederò perdono d'essermi nutrito di menzogna»
« Seguì poi un prosatore sbalorditivo... »: così Paul Verlaine, presentando per la prima volta al grande pubblico l'opera di Arthur Rimbaud nella antologia dei « Poétes Maudits », ebbe a parlare dell'ultima fase creativa dell'adolescente prodigio di Charleville. Nascevano quelle parole dall'attonita, quasi meravigliata constatazione d'un qualcosa che i termini e le categorie della critica letteraria non riuscivano assolutamente più a contenere, d'un qualcosa che sfuggiva, anzi scalpitava tra le mani, d'un qualcosa che ponendosi d'autorità su di altri piani, imponeva di conseguenza altri criteri e altra attenzione.
La prosa « sbalorditiva » corrispondeva, innanzitutto, a quella di Une Saison en enfer: lì più che altrove le parole tumultuavano scattavano come schegge impazzite e furibonde, lì la sintassi batteva talora ritmi convulsi, talora si distendeva in periodi sorprendentemente larghi e conchiusi, talora invece s'inarcava per poi restare drammaticamente sospesa, interrotta; lì la scrittura non si preoccupava di seguire e allinearsi alle regole degli stili, ne si premurava di forgiarne e sprigionarne di nuovi: tra quelle pagine infatti la letteratura bruciata da troppa tensione s'era dileguata e dissolta e al suo posto si dibatteva e rivoltava l'inesausta incombenza della vita. Insomma, la spinta intcriore che quelle medesime pagine avevano arginato assomigliava, in tutto e per tutto, all'energia che solo testi oracolari se non biblici (« E cosa certissima, è oracolo quel che vi dico ») potevano contenere; la Saison era come il frammento, la scheggia maledetta di un testo sacro che sia stato catapultato, oltre i secoli, sin dentro la nostra storia: come un libro sacro, talora si ergeva con indefettibile chiarezza, talora s'addombrava in espressioni che rimbombavano da altri mondi, da altri cicli; talora infine scattava sui lucidissimi stimoli di un'irrinunciabile impeto propositivo (« Ora svelerò tutti i misteri: misteri religiosi o naturali, morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonia, nulla »). Per questa ragione non si può immaginare nessun discorso che, volendo ragionare sull'eredità di Rimbaud, non tenga un adeguato, anzi speciale conto della sua opera più decisiva: Une saison en enfer.
Aveva cominciato a pensarla e a stenderla sin da prima del conclusivo e drammatico soggiorno a Londra in compagnia di Verlaine, cioè in quei mesi del '73, aprile e maggio, che aveva trascorsi, con la sua famiglia, nella residenza di campagna nei pressi di Charleville; nei seguenti termini ne aveva allora dato notizia per lettera, al suo amico Delahaye: «... lavoro con sufficiente regolarità; scrivo piccole storie in prosa, titolo generale "Libro pagano" o "Libro negro"; è sciocco e innocente. O innocenza; innocenza; innocenza, innoc... flagello!... La mia sorte dipende da questo libro per il quale mi rimangono da inventare una mezza dozzina di storie atroci. Ma come inventare atrocità, qui? ». L'opera ancora non era che agli inizi ma già in quell'invocazione pronunciata tra i denti, e poi convulsamente interrotta, in quell'invocazione cioè all'innocenza, già pulsava anzi batteva furiosamente il cuore della Saison (tra l'altro di quel Livre paien o Livre négre che sarebbe poi divenuto, nella definitiva stesura, il primo e più lungo capitolo, si doveva conservare un fortunato stralcio di minuta: dentro già la prosa vi eruttava cori violenza, già vi ribolliva un'energia che ormai soltanto attendeva una decisiva organizzazione).
Inseguiva la condizione dell'innocenza, inseguiva l'orizzonte della salvezza: per questo, toccato l'apice, il culmine della sua carriera poetica, fatte proprie le più ardite e audaci esperienze espressive, aveva dovuto constatare come per lui l'Arte veramente non si fosse ridotta ad altro che ad « une sottise », ad una sciocchezza. Esaurite insomma tutte le chances della letteratura, rotti i ponti con ogni morale, sorpresosi sul punto dell'« ultimo crac », con coraggio e con sbalorditiva fermezza s'era imposto di ritrovare le « chiavi dell'antico festino », del festino in cui « tutti i vini scorrevano e tutti i cuori s'aprivano »; per decifrarne i limiti e comprenderne gli inganni aveva cominciato a ripercorrere le strade invano frequentate un tempo, a sfogliare insomma il suo « taccuino di dannato »; a sfogliarlo sin dai primi segni sin dalle più arcaiche cifre.
CHANSON DE LA PLUS HAUTE TOUR |
CANTO DELL'ULTIMA TORRE |
Oisive jeunesse
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Gioventù trasognata a tutto sommessa, sensibil finezza m'ha dispersa la vita. Ah! I tempi vengano ove i cuori s'incendiano. |
Je me suis dit: laisse,
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Mi dissi: abbandona, più nessun t'abbia a scorgere: non attender promessi gaudi oltre la morte. Nulla mai ponga fine al ritiro sublime. |
J'ai tant fati patience
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Il molto patire ormai non ricordo; soffrire e temere nei cicli ora sono. La mortifera sete m'oscura le vene. |
Ainsi la Prairie
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Così sia: Prateria all'oblio liberata, dilatata, e fiorita d'incensi e zizzania al ronzare feroce di sudice mosche. |
Ah! Mille veuvages
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Ah! Innumeri distacchi dell'anima smarrita cui resta, solo immagine, la Vergine Maria! Viene invocata l'Intatta? |
Oisive jeunesse
Mai 1872 |
Gioventù trasognata a tutto sommessa, sensibil finezza m'ha dispersa la vita. Ah! I tempi vengano ove i cuori s'incendiano!
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Insomma, colui che aveva amato « asciugarsi al vento del delitto », colui che aveva innalzato « la sventura a suo dio » e che irridendoli aveva invocato « carnefici e flagelli », colui che s'era divertito a tirare « degli ottimi tiri alla pazzia », s'apprestava ora a scoprire, a se stesso e al mondo, gli incontrollati meccanismi della propria coscienza. Lo conduceva una fatalità, anzi, a meglio dire, un'irreversibile necessità: dalla sua stessa bocca doveva infatti uscire la parola che avrebbe proclamato tutte le sue infamie e le sue vergogne, dalla sua stessa penna si sarebbe dipartita la luce che avrebbe impietosamente inchiodato alle pagine anche le più segrete convulsioni della sua anima. Certo, che ogni sussulto, ogni battito della sua straordinaria avventura spirituale si fosse originato dalla devastante coscienza di un'Assenza, di un vuoto lo si sarebbe capito subito, sin dal succedersi delle prime parole, sin dall'articolarsi delle prime sillabe: tuttavia bisognava, era cioè necessario che di ogni ipotesi, costruita per cancellare o placare quell'assenza, si riferisse la storia. Per fissarsi a vicenda definitivamente e biblicamente esemplare, la parabola di Rimbaud doveva esaurire in se tutti i tentativi, in se consumare e bruciare tutte le risposte; doveva esaurirli e consumarle, per evitare che appestassero poi l'intera umanità.
Era, la sua, la vocazione di un mistico, di un mistico al quale, anziché sperimentare sulla propria persona le vibrazioni e anche l'eccedere di una Presenza, fosse toccato di lasciarsi inghiottire dal baratro di una negazione; di un mistico la cui ascesi prevedeva appunto, come catarsi, un viaggio all'inferno. Da vero grande mistico Rimbaud non s'era però limitato alla pur totale ed esclusiva dedizione ad un destino (al destino cioè impostagli da quella Voce, che pur senza mai rivelarglisi incessantemente lo chiamava); cercava bensì di fare di quel destino anche una strada verso una possibile purificazione. Così dopo aver consumato la sua atroce stagione negli infuocati regni di Lucifero, il poeta adolescente approdava all'ultima inaspettata sponda, all'ultimo, straordinario capitolo: Adieu (Addio). Di se stesso aveva rivelato tutto, non aveva taciuta nessuna delle perversità della sua anima ed ora, con la medesima saldissima coscienza, non gli restava che inchinarsi « alla realtà rugosa », che proclamare al mondo d'essersi « nutrito di menzogna », che domandarne infine scusa. Solo dopo tale suprema ammissione anche per lui poteva scoccare « l'ora nuova », anche per lui poteva cominciare la « vigilia »; anche a lui insomma, veniva dato d'incamminarsi con « ardente pazienza » verso « le splendide città ».
Questa tuttavia non è che la conclusione: prima in poche decine di pagine s'era infatti sdipanato il transitus infernale; in poche decine di pagine che non potendo qui ed ora, per ovvie ragioni, ripercorrere riga per riga, come invece sarebbe stato necessario, toccherà quindi al lettore affrontare, nel caso naturalmente non v'avesse invece già pensato, con la dovuta, estrema attenzione; affrontarlo non senza essersi prima armato tanto di un po' di pazienza quanto della necessaria, ferma persuasione che non tutto della Saison può venir decifrato e che a nessuna filologia riuscirà di snidare la oscurità che assedia talune parole e talune affermazioni. Quanto a noi, invece, non ci resta che far seguire una rapida traccia, giusto necessaria a che il nostro discorso possa giungere a conclusione. Aveva cominciato da lontano l'adolescente poeta di Charleville; era andato a cercare le radici, i germi anzi della sua notte in Inferno sin nell'anima dei suoi arcaici antenati, cioè presso i Galli da cui infatti non solo aveva derivato « occhi d'un azzurro sbiadito, il cervello stretto e la goffaggine nella lotta », bensì aveva anche desunto insieme a tutti i vizi pure l'idolatria e l'amore per il sacrilegio. Sin dalla sua infanzia aveva avuto in orrore ogni mestiere e quanto all'azione, quanto a questo « prediletto cardine del mondo » l'aveva sempre ritenuto un inutile sciupio di forze: certo per lui che metaforicamente non aveva mani, né « mani da penna ne mani da aratro », tale pericolo di dispersione non sussisteva. Il suo tallone d'Achille risultava semmai un altro: si sentiva infatti « schiavo di quel battesimo » che avendo impresso anche sulla sua anima il sigillo di un perdono, lo tratteneva in un rapporto d'insopportabile dipendenza; così lui che non tollerava mediazioni verso l'assoluto, aveva intravisto nella satanica strada che lo conduceva alla notte infernale la grande possibilità di scavalcare la barriera oppostagli dal cristianesimo. Una volta compiuta la scelta, una volta affacciatesi al baratro che l'attendeva aveva vissuto un attimo di terrore; poi però la sua lingua carpita da energia demoniaca cominciava a vomitare parole; il fuoco, insomma, « si risollevava insieme al suo dannato ».
Nella sua vita e quindi anche nella Saison eran poi seguiti due deliri: il resoconto del primo l'aveva affidato alla bocca della « vergine stolta », « della schiava dello sposo infernale », alla bocca insomma di Verlaine; il quale rievocando quasi con terrore il suo rapporto con il Demonio Rìmbaud, rievocandone anche i termini più scopertamente equivoci, aveva spiegato d'essere stato sedotto da una delicatezza misteriosa, da una carità stregata (« Talvolta egli parla in una sorta di tenero dialetto, della morte che fa pentìre, degli sventurati che certo esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano i cuori... Rialzava da terra gli ubriachi nelle strade nere »). Tuttavia tanti, troppi verbi messi all'imperfetto lasciavano intendere che la vicenda s'era già conclusa: « lo sposo infernale » un giorno se n'era andato molto lontano e nella testa di Verlaine non potevano ormai passare altro che fantasmi.
L'altro dei due deliri riguardava invece la poesia; lì le sue esperienze avevano travolto ogni confine, non avevano accettato alcun limite: all'inizio s'era lusingato « d'inventare un verbo poetico, un giorno o l'altro, accessibile a tutti i sensi »; poi scrivendo silenzi e fissando vertigini s'era via via ridotto all'allucinazione semplice. Voleva « notare l'inesprimibile »: perciò le sue parole tentavano altre articolazioni mentre incantesimi s'affollavano tra le righe; divenne alla fine un'opera favolosa » che certamente le pagine non potevano più riferire e che probabilmente navigava per altri mondi. La sua vita era « troppo immensa perché si potesse dedicare tutta alla forza e alla bellezza » e così anche con l'arte s'avviava a chiudere i conti. Tra le ultime pagine della Saison, placatisi « i sibili del fuoco, lo stridor di denti e i sospiri ammorbati » s'aggiravano infine parole più pacificate, talora di rimpianto (« Se il mio spirito fosse stato ben desto, navigherei in piena saggezza; o purezza, o purezza! »), talora di rinnovato ma più soppesato orgoglio, talora di timore; s'ha quasi la sensazione di un risveglio, con la lingua impastata ancora del torpore (« Io, non so spiegarmi meglio del mendicante coi suoi perpetui Pater e Ave Maria. Non so più parlare! »), con gli orrendi sogni della notte che lentamente tra diradati sussulti svaniscono: presto però la lucidità torna mattatrice e l'ultima pagina della Saison può sdipanarsi con la consueta decisiva fermezza.
Appunto con la fermezza di quell'ultimo capitolo non ha fatto i debiti conti tanta cultura dissacratrice e negativa del presente secolo; cultura - ma sarebbe meglio chiamarla malcostume culturale - che fondando il proprio generico, inutile ribellismo su di un'interpretazione viziata oltre che parziale di Rimbaud, non leggeva tra quelle righe, emessa con decenni d'anticipo, la sanzione della propria condanna e della propria fine; cultura che oltretutto non solo non ha pagato la gravita dei propri asserti ma che, su quegli asserti, ha costruito cinicamente una scala verso il potere (e dov'è finita l'Africa di Rimbaud, dove le parole che gli eran bruciate dentro sino all'ultimo giorno?). Presto infatti sulla vicenda del poeta adolescente avevano cominciato ad aleggiare in gran quantità leggende e interpretazioni del tutto improbabili e faziose. E' costitutivo infatti di tanta troppa civiltà di questi nostri tempi il non sapere creare, anche di fronte ai più vistosi segni dei tempi, che effimeri e labili miti; come appartiene sempre a quella civiltà l'opposta ma poi tanto simile tendenza a sfatare e diffidare di tutto in nome d'una presunta, cieca razionalità.
A tale sorte non poteva sfuggire neanche la straordinaria meteora di Rimbaud, quella meteora che pur portava su di sé, impressa nell'anima, il segno anzi il marchio della propria sete d'assoluto, della propria condizione di mistico sia pure allo stato selvaggio; di mistico cioè cui non era stato dato di riconoscere e dar nome alla Voce che lo assillava.
Che solo uno scrittore rimasto fuori da ogni mischia e da ogni gazzarra quale Paul Claudel abbia saputo vedere dentro la vicenda di Rimbaud i segni che questa portava agli uomini (tanto da fondare, poi, su quella vicenda, la propria conversione), crediamo confermi infine talune nostre considerazioni; prime tra tutte quelle che, dando origine a questi inserti, riguardavano la necessità di vedere con altri occhi e sotto altra luce tanti capisaldi della cultura del nostro secolo.
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