ritratto di Charles Péguy

La libertà e la gratuità

Intorno a due pagine di Charles Péguy

[la libertà]

«Prima di suggerire alcuni aspetti di questa suprema dote che ci definisce – l’uomo, infatti, è definito dalla sua libertà – permettetemi di leggere, per introdurre l’argomento, un pezzo de Il mistero dei santi innocenti di Péguy.

Dice Dio [...]

Bisogna amare queste creature così come sono.

Quando si ama un essere, lo si ama com’è.

Non ci sono che io che sono perfetto.

È anche per questo forse

Che so cos’è la perfezione

E che chiedo meno perfezione a questa povera gente.

Lo so, io, quant’è difficile.

E quante volte quando penano tanto nelle loro prove

Ho voglia, sono tentato di metter loro la mano sotto la pancia

Per sostenerli nella mia larga mano

Come un padre che insegna a nuotare a suo figlio

Nella corrente del fiume

E che è diviso fra due sentimenti.

Perché da una parte se lo sostiene sempre e se lo sostiene troppo

Il bambino ci confiderà e non imparerà mai a nuotare.

Ma anche se non lo sostiene bene al momento buono

Quel bambino si troverà a bere.

Così io quando insegno loro a nuotare nelle loro prove

Anch’io sono diviso tra questi due sentimenti.

Perché se li sostengo sempre e li sostengo troppo

Non sapranno mai nuotare da sé.

Ma se non li sostengo bene al momento giusto

Quei ragazzi potrebbero forse bere.

Questa è la difficoltà, ed è grande.

E tale è la duplicità stessa, la doppia faccia del problema.

Da una parte bisogna che raggiungano da sé la salvezza. È la regola.

Ed è formale. Altrimenti non sarebbe interessante. [Altrimenti non è la loro salvezza. Non è la loro felicità.] Non sarebbero uomini.

Ora io voglio che siano virili, che siano uomini e che si guadagnino da soli

I loro speroni di cavaliere.

D’altra parte non bisogna che bevano troppo

Per aver fatto un tuffo nell’ingratitudine del peccato.

Tale è il mistero delle libertà dell’uomo, dice Dio,

E del mio governo verso di lui e della sua libertà.

Se lo sostengo troppo, non è più libero

E se non lo sostengo abbastanza, cade.

Se lo sostengo troppo, espongo la sua libertà

E se non lo sostengo abbastanza, espongo la sua salvezza:

Due beni in un certo senso quasi ugualmente preziosi.

Perché quella salvezza ha un valore infinito.

Ma cosa sarebbe una salvezza che non fosse libera?

Come sarebbe qualificata?

Noi vogliamo che questa salvezza l’acquisti da sé.

Lui stesso, l’uomo. Sia procurata da lui.

Venga in un certo senso da lui stesso. Tale è il segreto,

Tale è il mistero della libertà dell’uomo.

Tale è il valore che noi diamo alla libertà dell’uomo.

Perché io stesso sono libero, dice Dio, e ho creato l’uomo a mia immagine e somiglianza.

Tale è il mistero, tale è il segreto, tale è il valore

Di ogni libertà.

Questa libertà di questa creatura è il più bel riflesso che ci sia nel mondo

Della Libertà del Creatore. È per questo che noi vi diamo,

Che noi vi poniamo un suo proprio valore.

Una salvezza che non fosse libera, che non fosse, che non venisse da un uomo libero non ci direbbe più nulla.

Che sarebbe mai?

Che vorrebbe dire?

Che interesse presenterebbe una tale salvezza?

Una beatitudine da schiavi, una salvezza da schiavi, una beatitudine serva, in che cosa vorreste che m’interessasse? Può forse piacere essere amati da degli schiavi?

Se non si tratta che di dar prova della mia potenza, la mia potenza non ha bisogno di questi schiavi, la mia potenza è conosciuta abbastanza, si sa abbastanza bene che io sono l’Onnipotente.

La mia potenza risplende abbastanza nelle sabbie del mare e nelle stelle del cielo.

Non è contestata, è nota, risplende abbastanza nella creazione inanimata.

Risplende abbastanza nel governo,

Nell’avvenimento stesso dell’uomo.

Ma nella mia creazione animata, dice Dio, ho voluto di meglio, ho voluto di più.

Infinitamente di meglio. Infinitamente di più. Perché ho voluto questa libertà.

Ho creato questa libertà stessa. Ci sono molti gradini nel mio trono.

Quando una volta si è provato a essere amati liberamente, le sottomissioni non hanno più nessun gusto.

Quando si è provato a essere amati da uomini liberi, il prosternarsi degli schiavi non vi dice più nulla.

Quando si è visto san Luigi in ginocchio, non si ha più voglia di vedere

Quegli schiavi d’Oriente prostrati a terra

Quanto son lunghi bocconi per terra. Essere amati liberamente,

Null’altro ha lo stesso peso, ha lo stesso valore.

È certo la mia più grande invenzione.

«La mia più grande invenzione»: che quei due che incontrano Gesù sulle sponde del Giordano la prima volta, Andrea e Giovanni, sono liberi. Questi due che, come nel bassorilievo di Andrea Pisano,2 remano verso l’altra riva, verso la riva del significato misterioso, sono stati creati, destati, risvegliati, lanciati, diretti e sostenuti da quella grande Presenza; eppure sono liberi. Questo è il paradosso. Così è per noi. Dobbiamo gridare: «Dio, vieni a salvarmi!». Ma gridare: «Dio, vieni a salvarmi» è libertà: occorre la tua libertà, amico.

Vorrei dire quattro cose sulla libertà.


1. Prima di tutto voglio ricordare quel che è detto ne Il senso religioso sulla libertà.3 Lì si dice che la libertà non è come pensano tutti: tutti, infatti, pensano che la libertà sia fare quello che pare e piace, ciò che si vuole, ciò che viene in mente. E invece ne Il senso religioso si dice che è un’altra cosa. Prima di definire questo essere “un’altra cosa” della libertà da come la pensano tutti, vediamo come si fa a capire che è un’altra cosa. Come si è aiutati a capire che la libertà non è fare quello che pare e piace?

Bisogna sempre partire dall’esperienza originaria. Quando l’uomo originariamente si sente libero, l’uomo nel senso di io e di tu? Quando ha un desiderio e lo soddisfa. Il passaggio dal desiderio alla soddisfazione fa sentire che si è liberi. Allora, dice Il senso religioso, prolunghiamo questa osservazione fino al termine. L’uomo ha un desiderio di felicità, cioè di soddisfazione totale: dunque il realizzare questo è la libertà. La libertà è la felicità e la soddisfazione totale. Prima di questa l’uomo è libero disperatamente. Non è libero. Pur scegliendo tra questo e quello, ha una libertà disperatamente non libera. Si soddisfa ed è come la Samaritana: va al pozzo, beve e deve ritornare ancora, o come gli alcolisti che stanno lì a parlarti, assicurandoti che va tutto bene, poi chiedono le centomila e vanno via – se tu li seguissi, vedresti che andrebbero spudoratamente a prendersi un bicchiere di vino –.

«Se riconoscete che io ho delle cose da dirvi, seguitemi, se verrete con me, conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi», dice Gesù nell’ottavo capitolo di san Giovanni, versetto 31. La verità vi renderà liberi. La libertà è la capacità del destino, è la capacità del fine, è la capacità della felicità, è la capacità della soddisfazione totale, è la capacità della verità. Questa è la libertà.

Un pensiero di Papini: «Il seme è libero, ma soltanto di trasformarsi in albero [il seme di pioppo è libero di trasformarsi in pioppo. Ognuno di noi è libero ma solo di diventare ciò che nella sua originale essenza era già. La nostra originale essenza è la sete di felicità; l’uomo è libero di diventare ciò che nella sua originale essenza era già: sete di felicità]. Gli ostacoli alla naturale crescita si chiamano schiavitù». La libertà è capacità di Infinito, capacità di rapporto con l’Infinito. Come dice Papini: «L’originale essenza dell’uomo è rapporto con l’Infinito». «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza»,4 dice la Genesi. La libertà è capacità di soddisfazione totale, è sete di felicità, è capacità – direbbero i filosofi – del fine. La libertà per quei due lì, che sono il nostro simbolo,5 cos’è? È raggiungere l’altra riva, la riva dove il Mistero sta libero e luminoso, tenero e cordiale, per abbracciarmi. Sono stati lanciati nel mare della vita solo per quello. La libertà è la capacità della felicità, perciò solo l’annuncio cristiano, solo l’annuncio che l’angelo grida nel mondo frastornato – pieno di frastuoni, nel mondo piallato dalla nostra anonimità, determinato dal potere – è l’unica voce che grida la libertà dell’uomo. L’unica.

Ne Il senso religioso c’è un’osservazione: c’è un altro tipo di pensiero che sembra esaltare la libertà. Qual è? L’anarchia, che dovrebbe essere l’affermazione della libertà per la libertà. E infatti – come ho scritto in quel testo – ci sono due soli tipi di uomini degni di essere chiamati uomini: chi riconosce l’altra riva, chi riconosce Dio, il Mistero, per cui l’uomo è fatto d’infinito, la felicità per cui è fatto, e l’anarchico, che afferma la libertà al di sopra di ogni cosa, contro tutto e tutti.6 Ma tra le due posizioni la seconda è evidentemente menzogna, è un urlo volontaristico senza capo né coda, anzi, per affermare la libertà contro tutto e tutti deve distruggere qualche cosa.

Il primo punto è dunque un richiamo a che cos’è la libertà, quella libertà di cui così bene Péguy fa parlare Dio: «Una salvezza che non fosse libera, che non fosse, che non venisse da un uomo libero non ci direbbe più nulla».

Dobbiamo stringerci insieme, perché è difficile andare contro tutta la corrente. Infatti, quel che sentiamo e che ci diciamo tra noi è difficile da tenere, perché va tanto contro corrente, quanto è, evidentemente, in corrispondenza tenera con l’originale essenza del cuore. Non possiamo negare né la nostra debolezza di fronte a tutti né questa verità; questa verità, che è – dice Il senso religioso – la corrispondenza dell’incontro con il Mistero, della proposta della presenza del Mistero col cuore. Il cuore: l’originale essenza dell’uomo che è rapporto con l’Infinito.


2. Adesso facciamo qualche breve passo di analisi della libertà. Innanzitutto la caratteristica principale della libertà. Qual è la caratteristica principale di quei due uomini, pieni di libertà, che vanno verso l’altra riva?

È che riconoscono l’altra riva. È il riconoscere di appartenere a qualcosa d’Altro. La caratteristica prima della libertà è riconoscere un Altro a cui si appartiene. Pensiamo che questo Altro è il terzo che è là, che si è messo sulla barca anche Lui. Perciò di questo aspetto supremo della libertà – libertà che è riconoscere di appartenere a un Altro, all’altra riva – il fattore più acuto, più affascinante e nello stesso tempo da capogiro è riconoscere che l’altra riva, l’Altro cui si appartiene, il Mistero, l’Infinito è con noi, è sulla stessa barca con noi: è una cosa dell’altro mondo.

Quando Giovanni e Andrea hanno seguito Gesù: «Maestro, dove stai di casa?», si sono sentiti rispondere: «Venite a vedere».7 Andarono e rimasero con Lui tutto quel giorno. Tornati a casa forse tacevano, ma appena hanno visto un loro compagno, appena Andrea ha visto Pietro gli ha detto: «Abbiamo trovato il Messia!».8 Cosa vuole dire «abbiamo trovato il Messia»? È una cosa dell’altro mondo.

C’è una cosa dell’altro mondo dentro la libertà: riconoscere il Dio fatto uomo tra noi. La prima caratteristica della libertà è riconoscere di appartenere a un Altro. Sembrerebbe un paradosso, secondo quanto abbiamo detto prima, ma sarebbe un paradosso contrario alla natura se tu riconoscessi di appartenere a una donna, a un uomo, a un maestro, a un amico, a un padre o a una madre. Allora sarebbe umiliante, eccetto il caso che padre, madre, uomo, donna, compagno siano un segno, cioè abbiano la brevità, la fragilità infinita del segno che il vento può muovere e rimuovere come muove e rimuove la foglia sulla pianta. Si tratta di riconoscere di appartenere a un Altro, all’Altro che ti fa, all’Infinito per cui sei fatto, alla Verità per cui sei fatto. «La verità vi renderà liberi.» La verità è ciò a cui spinge l’originale essenza del cuore, il riconoscimento di appartenere a Cristo.

Il vertice della libertà si chiama fede. Se la libertà è rapporto con l’Infinito, col Mistero, la cosa più importante della libertà è il riconoscimento del Mistero, del dove il Mistero è; perciò con la barca andarci, lungo la vita camminare verso di esso. Ma questo Mistero è diventato uomo ed è qui con me, è alle mie spalle che mi sorregge e mi guida e qualche volta mi sembra di intravvederlo e gli dico: «Tu, aiutami!».

Riconoscere che il Mistero è diventato uomo, Tu o Cristo. «Vieni Signore»: questo si chiama fede. La fede è riconoscere una Presenza eccezionale, è riconoscere la presenza dell’Eccezionale, la presenza dell’Infinito tra noi, in carne e ossa. Riconoscere la presenza di Cristo, perciò il vertice della libertà è la fede. La verità della vita è la misura di un Altro, ma di un Altro che ci sta a fianco. Questo riconoscimento è la suprema libertà. La gente non è libera, non perché deve servire i padroni, bensì perché manca questo riconoscimento. Invece, gli schiavi cristiani erano liberi!

Il problema non è «l’affermazione di una nostra misura». L’esito veramente umano, la libertà «non è l’affermazione di una nostra misura, ma l’affermazione del significato vero»9 della vita che è nell’annuncio: «Il Verbo si è fatto carne». Tale riconoscimento è l’oggetto di quella punta suprema oltre la ragione che si chiama fede. La fede, infatti, è l’intelligenza che supera se stessa e tocca una cosa che da sola non avrebbe toccato.

Dunque, l’aspetto più forte della libertà è il riconoscimento di appartenere, è il riconoscimento di Chi, di Ciò cui apparteniamo, di Chi è il Signore della nostra vita.

«Tutto in me consiste, senza di me non puoi far nulla»,10 dice Gesù. L’aspetto più acuto della libertà è il riconoscimento di Colui cui apparteniamo, un uomo, Cristo, Figlio di Maria.


3. Se il primo aspetto della libertà è il riconoscimento di una appartenenza e, come sua acuzie, dell’appartenenza a Cristo, il secondo aspetto interessante e decisivo della libertà (sto parlando della libertà dell’uomo, non della libertà del frate o del prete) è il seguire. O il mondo o Cristo. Parlare di seguire oggi può suonare particolarmente ostico e infatti è paradossale, ma comprensibile, che proprio in un’epoca in cui l’uomo si è lasciato indurre a comportamenti sempre più standardizzati, resi anonimi in una massa, proprio in un’epoca del genere, in cui, come diceva Pasolini, tutti sono omologati, uguali, pianificati, si manifesti almeno a parole il bisogno di una vera personalità, il bisogno di non conformarsi ciecamente ma consapevolmente.

A che cosa ci si può conformare consapevolmente, imparando sempre di più, volendo bene sempre di più, con una tenerezza sempre più grande se non a Colui cui apparteniamo, a Te cui appartengo?

Una frase di san Gregorio Nazianzeno dice: «Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita».11 Sarei, come dice Péguy, quello che sono tutti, omologati, morti, dove la faccia è tutta rosa da vermi. Un’anima morta. La vita è seguirLo perché Egli è quel terzo che c’è dietro e che dice: «Di qui, diritto», che mi sorregge e guida. «Se non fossi tuo, mio Cristo», sarei un navigatore finito, sarei un’anima morta.

Un’anima morta è un’anima tutta invasa dal già fatto. Il già fatto, cioè quel che ha sempre fatto lei e che fanno gli altri, la occupa per intero, la ingombra. Un’anima consacrata al già fatto, stretta, legata, condizionata dal già fatto, interamente divorata dal già fatto, tutta rattrappita, tutta mummificata, piena di residuati, piena dei suoi rottami, piena della sua abitudine, dei suoi mali, maleodoranti ricordi, aridi ricordi. Invece il seguirLo capovolge la situazione e il segno di tale capovolgimento è che il presente diventa affascinante, nuovo. Il presente: questo istante è un presente, tra un minuto – pensate – quei due saranno andati avanti, ed è un altro presente, diverso. È tutto diverso. Si sente, quando siamo vivi e ci pensiamo, che siamo diversi ogni momento dall’altro. Non diversi nel senso che siamo altri, ma che diventiamo più noi stessi. È quello a cui richiama san Francesco di Sales in una lettera a un amico gesuita: «Carissimo, la tentazione più grande che il demonio mette nel tuo cuore è di farti credere di essere più utile in qualunque altra parte del mondo fuorché dove ti trovi o che sarebbe più importante fare qualsiasi altra cosa fuorché quello che stai facendo».12

Dove ti trovi. Quello che stai facendo. Il presente nella sua nudità, nella sua povertà, nella sua debolezza assoluta, questo diventa grande se diventa espressione di un seguire. Libertà è seguire.


4. Un’ultima osservazione. Si tratta di una condizione perché il riconoscimento di appartenere e il seguire siano autentici.

Il seguire deve essere un tentativo cordiale di immedesimazione con i motivi profondi di ciò che ti viene proposto. Seguire non è cosa da cani, non è come per i cani, ma è immedesimarsi con i motivi profondi di ciò che viene proposto, con la ragione profonda, con l’evidenza magnifica, con l’intelligenza penetrante di ciò che l’Annuncio porta. Allora ti ritrovi, più te, più libero. Se segui immedesimandoti diventi più “io”. Il paradossale è, infatti, che questo riconoscimento della verità, nonostante quello che si è, questo riconoscimento dell’appartenenza o questo seguire nonostante quello che si è – si segue arrancando, strisciando per terra, ma si segue – produce una unità dell’io, una unità della persona. Seguire la compagnia produce l’unità dell’io, l’unità della persona. Si è più se stessi.

***

Abbiamo parlato della libertà come condizione per essere navigatori e non molluschi che marciscono sulla spiaggia.

Per essere navigatori e non meduse che svaniscono nello schifo della spiaggia occorre essere liberi. Abbiamo detto che la libertà – poiché è il riconoscimento del destino, della nostra natura come rapporto col destino, col destino infinito, col destino eterno che è diventato uno fra noi – è il rapporto tra noi e Cristo.

Senza di Te dove possiamo andare? Tu solo hai parole che agganciano e danno consistenza al vivere; senza di Te dove andiamo? La barca dove stanno Andrea e Giovanni senza di Lui dove va?

[la gratuità]

Ora, vorrei brevemente indicare una seconda condizione perché quei due uomini possano remare fino all’altra riva. Ciò di cui voglio parlare appartiene radicalmente al cuore della libertà, ma non si confonde con la libertà, ne è, per così dire, il primo frutto. La libertà può avere frutti di “tosco”, che vuole dire frutti amari, quando si ribella, quando diventa una medusa che si sfascia sulla spiaggia. Ma c’è una conseguenza della libertà – la prima conseguenza – in cui essa immediatamente, improvvisamente fa splendere la grandezza della sua natura di rapporto con il Destino.

Questa prima conseguenza, che è come una seconda caratteristica della libertà, è quella che rende l’uomo veramente simile a Dio, che fa riflettere nell’uomo la natura stessa del comportamento di Dio. Infatti, ciò che definisce Dio di fronte alla creazione è la grazia. Vale a dire: questa cosa, questa montagna, o questa persona, perché c’è? Perché Dio l’ha voluto. Perché l’ha voluto? Perché l’ha voluto. Tutto è grazia, gratuito. Per questo diciamo: «La tua grazia vale più della vita».13 È la suprema caratteristica dell’amore, senza la quale l’amore non c’è: è la gratuità. Non c’è nobiltà se non in questa parola.

Nonostante tutto il calcolo che ci può essere dentro quei due che remano, il loro vero e primo calcolo è gratuità. Il vero motore del loro remare è un essere affondati e abbandonati nella gratuità. Perché la gratuità è la caratteristica dell’amore a se stessi, che o è gratuito o non è amore a se stessi. E, più evidentemente, se non è gratuito non è amore all’altro.

Ma io voglio insistere innanzitutto sul fatto che la gratuità è il valore supremo del modo di comportamento di Dio verso la sua creatura.

Questo “gratis”, questa gratuità pura, assenza totale di ogni incrinatura di calcolo è il valore del comportamento di Dio verso la sua creatura perché riflette la stessa natura divina, la Trinità. Lo dice un canto: «A te la creazione fa ritorno nell’incessante flusso dell’amore».14 La ragione dell’amore è l’amore.

Dunque voglio incominciare ancora con un pezzetto di Péguy:

Come la loro libertà è stata creata a immagine e somiglianza della mia libertà, dice Dio,

Come la loro libertà è il riflesso della mia libertà,

Così mi piace trovare in loro come una certa gratuità

Che sia come il riflesso della gratuità della mia grazia.

Che sia come creata a immagine e somiglianza della gratuità della mia grazia.

Mi piace che in un certo senso essi preghino non solo liberamente ma come gratuitamente.

Mi piace che cadano in ginocchio non solo liberamente ma come gratuitamente.

Mi piace che si diano e che diano il loro cuore e che si rimettano e che portino e che stimino [e che voghino] non soltanto liberamente ma come gratuitamente.

Mi piace che amino infine, dice Dio, non soltanto liberamente ma come gratuitamente.

[Dove questo «come» è acutissimo perché è come un tremore nel paragonare la nostra gratuità alla gratuità del Mistero.]

Ora per questo, dice Dio, con i miei francesi sono ben servito.

È un popolo che è venuto al mondo con la mano aperta e il cuore liberale.

Dà, sa dare. È per natura gratuito.

[«Questa è la generazione che ti cerca, cerca il tuo volto, Dio d’Israele»:15 è la purità assoluta, questa è la gratuità.]

Quando dà, non vende, lui, e non presta a breve scadenza e ad alto interesse.

Dà per nulla. [E umanamente parlando è proprio così: chiunque vedrebbe il nostro donarci a Cristo come un donarsi per nulla, come per un nulla, ma tu fai obiezione a te stesso perché ti sembra di darti a niente.] Altrimenti è forse un dare?

Ama per nulla. Altrimenti è forse un amare?

[Infatti il contrario della gratuità è il calcolo.]

Voglio sottolineare tre cose essenziali della gratuità che devono qualificare il cuore della nostra libertà.


1. Il primo è una ripresa del primo punto sulla libertà.

L’egoismo, ciò che ha dentro la nube e l’ombra del calcolo, ci lascia a disagio e in nome di questa esperienza di disagio noi ammiriamo e restiamo con la bocca spalancata, con gli occhi spalancati a guardare il puro gratuito. La gratuità nasce dal puro riconoscimento che Tu, o Cristo, sei il Mistero che fa tutte le cose, diventato un uomo, e che sei qui con me alle mie spalle e mi spingi in questo vogare fino all’altra riva. Questo riconoscimento è secondo l’esperienza, mi soddisfa nell’esperienza. E infatti, chi ama di più di chi dà la vita per l’amico? Come dice san Paolo: viene il desiderio di morire, perché si capisce che non c’è niente, non possiamo pensare e sentire e fare niente che sia più grande per potere affermare ciò che riconosciamo.16 Questo riconoscimento gratuito e puro è come quello che stava negli occhi di Giovanni e Andrea, nel primo capitolo di san Giovanni. Immaginiamo Giovanni e Andrea, come gli vanno dietro e poi timidi entrano in casa sua e stanno là a sentirlo, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Immaginiamo che riconoscimento gratuito: sentire quell’uomo, vedere quell’uomo e riconoscere quella Presenza senza paragone. Dobbiamo essere investiti da questa capacità di ammirazione, di stupore. Posso essere, anzi, sono pieno di difetti e di incoerenze, ma Tu sei il Signore, ti riconosco Signore. La prima dote della gratuità è questo riconoscimento puro, ammirato, stupefatto, in cui la nostra esperienza si adagia come quando uno respira a pieni polmoni, come quando un bambino dà un sospirone dopo avere pianto, dopo essere stato stretto si dilata in un sospiro che sembra non avere confine.


2. La seconda caratteristica della gratuità è la disponibilità. «Fiat, eccomi. Ecco la serva del Signore, avvenga di me secondo la Tua parola», come ripetiamo tutti i giorni recitando l’Angelus. Impegnarsi nella disponibilità alla compagnia coincide con il lottare per il proprio cuore e per quello di ogni uomo. La disponibilità coincide con il lottare per il proprio cuore, per il cuore di ogni uomo, perché l’amore al proprio cuore è identico all’amore al cuore della persona che ci passa vicino, pur totalmente estranea, perfino a quello del nemico che alza la sua mano contro di noi. La disponibilità di quei due è la disponibilità, allora, ad andare insieme.

Non è mai disponibilità a Cristo – sarebbe disponibilità a una nostra immagine, a una nostra fantasia – se non è disponibilità a ciò in cui è presente Cristo, a ciò in cui è presente la grande Presenza. La disponibilità è a quella barca e a quei remi, a quell’essere insieme, a quell’andare indomabile verso il porto. «Disponibilità» non è una parola astratta. Disponibilità a Cristo, infatti, cosa vorrebbe dire? Disponibilità alla Sua presenza è disponibilità a ciò in cui la Sua presenza si rivela a noi, ci chiama, ci richiama, ci provoca. È disponibilità alla compagnia. Questa disponibilità ha a sua volta una triplice flessione, una triplice caratteristica, una triplice dote.

Innanzitutto, la totalità. «Ecco la serva del Signore, avvenga di me [e non solo della mia mano, del mio braccio, della mia testa] secondo la Tua parola.»

Non è disponibilità se non è per la totalità. «Eccomi», basta.

La seconda flessione caratteristica della disponibilità è la pazienza nel tempo. «Il cammino del Signore – termina un nostro libretto – è semplice come quello di Giovanni e Andrea, di Simone e Filippo, che hanno cominciato ad andare dietro a Cristo: per curiosità e desiderio.» È un corollario del riconoscimento di quella Presenza così eccezionale. «Curiosità e desiderio» con un latinismo si direbbe endiadi, sono come due parole che dicono una cosa sola, cioè un desiderio. «Non c’è altra strada, al fondo – e questa è la frase più potente di tutto quel libro – oltre questa curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero.»17

Curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero. Andare dietro a questa curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero è la disponibilità. Il tempo non solo non è obiezione, ma è abbracciato nella totalità della disponibilità stessa. La totalità abbraccia anche il tempo. Guardiamo quel quadro dei due rematori: è tutto un rischio, è fissato un rischio, è fissata una tensione, una curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero. Totale disponibilità, lungo tutto il tempo che ci vuole, rischiosamente. Il senso del rischio non implica il dubbio, non implica l’incertezza, ma descrive lo stato d’animo che un uomo nella prova sente. È il brivido che uno sente nel passo pur sicuro e certo perché c’è la grande Presenza. Pensate al brivido del rischio dei navigatori. Disponibilità, dunque, nella totalità che abbraccia il tempo, nella pazienza e nella rischiosità propria della natura del gesto.

Questa disponibilità, se è totale, se abbraccia nella pazienza il tempo, se vive il brivido della rischiosità, fa l’uomo pieno di saggezza e di tenerezza. Chi è disponibile è saggio. Di quella ragazza che ha detto: «Fiat, sì, eccomi, avvenga di me secondo la Tua parola», non si può immaginare un passo o un gesto che non fosse radicato in una saggezza, che non fosse fioritura di una saggezza. Si è data, è stata saggia, ma è una saggezza non calcolata, che unisce l’intelligenza del vivere e l’intelligenza del destino a una tenerezza verso quello che si è. Saggezza, tenerezza e disponibilità che vibra, che passa al setaccio tutto e non lascia passare che ciò che è puro.

La caratteristica ultima della disponibilità è una purità assoluta, non come capacità di coerenza, non come abolizione della debolezza, ma che è alla radice – paradossalmente – anche dell’incoerenza, alla radice anche dell’errore. Alla radice della fiacchezza, della debolezza sta una purità che coincide con la gratuità. Se pur sbaglio, non tolgo la gratuità, tant’è vero che dall’errore rimbalzo subito, non ci resisto un secondo. Per questo domani leggeremo, perché abbiate a rileggerla tutti i giorni nel quarto d’ora di silenzio – almeno un quarto d’ora di silenzio vi imporrete tutti i giorni – la preghiera di Grandmaison: «Santa Maria, madre di Dio, conservami un cuore di fanciullo, puro e limpido come acqua di sorgente». Non si possono dire queste cose per la pretesa o la presunzione dell’assenza di errore, ma per una qualifica dell’origine. La purità, la gratuità sono una qualifica dell’origine, della fonte della vita.


3. Terzo fattore della gratuità. Il primo è il riconoscimento: «Curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero», il riconoscimento del vero presentito. Il secondo, imponente, è la mossa, il metodo, la vita di questo riconoscimento del «vero presentito» – ecco, questa è l’espressione più chiara –. Il movimento di questo «vero presentito» è la disponibilità totale che abbraccia la pazienza lunga del tempo, come dice il Vangelo: «Nella vostra pazienza possiederete la vostra vita».18 Una vita carica di rischiosità. La rischiosità è quella vibrazione in cui la paura non domina, è la vibrazione che farebbe venire la paura se qualcosa, la Presenza, non la espugnasse. Il rischio farebbe venire paura se qualcosa di presente non le desse un calcio.

Si tratta di una disponibilità che crea l’uomo saggio e tenero: pieno di saggezza, in riferimento al percorso da compiere fino all’altra riva, e pieno di tenerezza, in riferimento al cuore che parte, che cammina e che voga. E, infine, la purità come caratteristica della sorgente: la sorgente della disponibilità è la gratuità. Alla sua sorgente la disponibilità è pura.

Ora vediamo la terza caratteristica della gratuità, quella più profonda, che indica il livello dove la curiosità e il desiderio del vero presentito che diviene disponibilità viene alimentata, dove tutto viene alimentato, sorretto. Che cosa può sorreggere e alimentare Andrea e Giovanni? La domanda continua, anche non espressa, alla grande Presenza che sta dietro. La sicurezza di quella Presenza è segnalata nella domanda. La caratteristica più profonda della gratuità è la domanda.

La domanda non ha barriere, non ha obiezione possibile, tutto vince. Andate a leggere l’undicesimo capitolo di san Luca, versetti 1-13; e Luca 18,1-8. Leggiamo quest’ultimo: «Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi [la gratuità non si stanca mai]: “C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: ‘Fammi giustizia contro il mio avversario’. Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: ‘Anche se non temo Dio e non ho rispetto per nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a seccarmi’”. E il Signore soggiunse: “Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non risponderà ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo [troppo a lungo per loro] aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”». Ma il Figlio dell’uomo quando entrerà sulla tua barca e dirà: «Andiamo», troverà fede in te?

Il lungo salmo 31, verso la fine (v. 23), dice: «Io dicevo nel mio sgomento: / “Sono escluso dalla tua presenza” [che è come dire: «Non ce la faccio, anche se capisco che queste cose sono vere»]. / Tu invece hai ascoltato la mia voce / quando a te ho gridato aiuto». La domanda è il fondo della gratuità. Se la purità è la trasparenza del flusso della sorgente, la domanda è la potenza di questo flusso, irresistibile. Perciò siamo inescusabili, nessuno al quale sia stato destato il presentimento del vero può osare dire: «Sono escluso dalla tua presenza». Ma quando verrà il Figlio dell’uomo troverà fede sulla tua barca, troverà fede nella tua compagnia?

Diceva Dio nel brano di Péguy: «Colui che non s’abbandona non mi piace, lavora come mio schiavo, come un imbecille». Viene in Chiesa, prega, viene ai raduni, lavora come uno schiavo, come un imbecille, ma «colui che non s’abbandona non mi piace».

Invece, come dice Péguy altrove: «Quale cristiana umiliazione, quale umiliazione di santo. Chi ama / Viene a dipendere [tutto] da chi è amato [dal vero presentito]. Quale nobile umiltà. Non comanda, domanda. / Attende, spera, riprende dolcemente [che non è il contrario di fortemente]. Prega. Quale umiltà, tutta vestita di nobiltà». Per questo, insieme alla preghiera di Grandmaison, vorrei che si rendesse normale, nel quarto d’ora di silenzio, leggere la preghiera di sant’Anselmo d’Aosta, uno dei più grandi teologi e filosofi in mille anni di storia dell’umanità occidentale: «Ti prego, Signore, fa’ ch’io gusti attraverso l’amore quello che gusto attraverso la conoscenza [o che non gusto ancora attraverso la conoscenza]. Fammi sentire attraverso l’affetto ciò che sento [il presentimento] attraverso l’intelletto. Tutto ciò che è tuo per condizione [per natura] fa che sia tuo [che io lo riconosca tuo] per amore [contento che sia tuo]. Attirami tutto [totalità] al tuo Amore. Fai tu, o Cristo, quello che il mio cuore non può. Tu che mi fai chiedere, concedi!».

Tu che mi fai chiedere, concedi! Trovatemi un’umanità possibile come questa! Ma la preghiera di sant’Anselmo rende esplicita la frase di Péguy: «Quale cristiana umiliazione, quale umiliazione di santo. Chi ama / Viene a dipendere da chi è amato». È umile chi ama di fronte al vero amato, di fronte all’amato. Questa è la suprema dote della gratuità; si confondono, non c’è possibilità di separarli – gratuità, cioè amore –. Amare vuole dire affermare l’altro come se stessi. Tu sei me, dice san Paolo: «Vivo non io, sei Tu che vivi in me».19 Tu sei me, altrimenti cosa sarei io, dimmi, cosa sarei? Niente. L’Altro, cioè il vero, è me stesso. La gratuità quindi si confonde con la parola amore.

Ma non ho detto a caso, non colloco a caso la parola che esplicita tutta la grandezza divina della parola «Grazia» o gratuità. Non l’ho messa per ultima se non perché essa, l’amore, costringe a vedere dentro di sé, proprio dentro il proprio petto – come cuore – una cosa che si chiama sacrificio. Tutto il vigore, la fatica di quei due, è il cuore dell’amore. «Nessuno ama il proprio amico, se non colui che dà la vita per il proprio amico»:20 parola di Cristo detta poche ore prima che la lancia gli trapassasse il cuore.

La parola gratuità è paradisiaca, è l’oceano, è l’oceano sterminato della divinità, è il cielo puro, senza ombra. Sta all’origine di tutto. Questo deve essere penetrato da noi, questo deve penetrare in noi perché siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, Grazia. Ma questo ultimo sinonimo in cui la parola Grazia nella storia umana fluisce (perché nella storia umana la gratuità fluisce dentro la parola amore) reca dentro di sé una piaga, reca dentro di sé un distacco, reca dentro di sé il sacrificio. E qui sta lo svelarsi, in questo aprirsi del cuore per la lancia del sacrificio, del dolore, sta il dimostrarsi di tutto il vigore di gratuità, l’estremo vigore con cui il potere del Mistero ha creato l’universo. L’amore è l’estrema gratuità con cui il Mistero diventato uomo è morto in croce per te, per me, per ogni uomo che c’è in questo mondo, ieri, oggi, domani.

Che noi da tutto questo impariamo ad amare come amiamo noi stessi.»

Tratto da Le mie letture. I titoletti sono una mia ggiunte per facilitare la lettura.

note

1 La meditazione si è svolta a Corvara dal 4 al 6 agosto 1991, durante un corso di Esercizi spirituali per i Memores Domini. I brani citati si trovano in Ch. Péguy, I misteri, Jaca Book, Milano 1997.

2 Il bassorilievo riprodotto sul manifesto pasquale del 1994 ritrae due vogatori su una barca, protesi al raggiungimento dell’altra riva, emblema dell’essere e della soddisfazione totale. Alle loro spalle, seduto sulla stessa barca con loro, un uomo, che guida e sostiene il loro impegno.

3 Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, pp. 119-128.

4 Gen 1,26

5 Il riferimento è ancora al manifesto pasquale (vedi qui, nota 2).

6 Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 11-13.

7 Gv 1,38-39.

8 Gv 1,41.

9 L. Giussani, «Decisione per l’esistenza», in Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 124.

10 Cfr. Gv 15,5.

11 Vedi qui, nota 8, capitolo 8.

12 Cfr. San Francesco di Sales, «Lettera 125 (25 settembre 1608)», in Lettere di amicizia spirituale, Edizioni Paoline, Milano 1984, p. 558.

13 Sal 63,4.

14 «O Trinità infinita», Inno dei Vesperi della domenica, in Il libro delle Ore, Jaca Book, Milano 2006, p. 62.

15 Cfr. Sal 24,6.

16 Cfr. 2 Cor 5,14-15.

17 L. Giussani, «Decisione per l’esistenza», in Alla ricerca del volto umano, op. cit., pp. 125 sgg.

18 Cfr. Lc 21,19.

19 Gal 2,20.

20 Cfr. Gv 15,13.